[...]
Mi fece accomodare sul letto e mi portò delle fette di cocomero che mangiammo assetati. Io sputai i semi, lei no. Poi facemmo l'amore.
(P.A. Jarvis)Sono passati cinque mesi ma ricordo bene che stavo traducendo questa frase, tutta intenta a non tradire le intenzioni di chi l'aveva scritta e me l'aveva consegnata con enorme fiducia. Guardai l'ora sul pc: le 16.15. Erano i primi di marzo e fuori faceva ancora freddo. Mi fermai un attimo a riflettere su quei giorni strani e pieni di scossoni. Pensai che era una fregatura che proprio in quel momento non ci fosse D., la mia amata coinquilina, lì a Bologna con me e che avremmo preso il tè delle cinque insieme, ridendo di come avessi scombussolato la mia vita nel giro di una settimana. L'altra coinquilina, l'
Afflitta, aveva passato la nottata precedente a singhiozzare davanti al pc ed era anche lei fuori di casa, ma comunque
per definizione non sarebbe stata di grande aiuto. Poi una voce, debole, sempre più debole, che chiamava il mio nome mi scosse dai miei pensieri. Dentro di me sapevo che era successo qualcosa ma il cervello si rifiutava di prestare ascolto a quella voce dal corridoio. Mi ritrovai in piedi in cucina, immobile, la voce non c'era più; fui tentata di ignorare quell'incubo e ritornare alla mia traduzione, di non andare a vedere, occhio non vede cuore non duole, perché mai andare ad aprire quella porta se il film si chiama "Non aprite quella porta" e cose così. Però non potevo. Mi affaccio al corridoio e vedo esattamente quello che non avrei mai voluto vedere ma sapevo che avrei visto: l'Afflitta riversa a terra tra la porta del bagno e il corridoio, braccia e gambe piegate come non dovrebbero mai essere piegate, in un modo che mi fa pensare a una svastica. Corro per il corridoio, ho il cuore che mi è saltato in gola e lo sento distintamente pulsarmi nelle orecchie. Mi avvicino, le tasto il polso, niente, non c'è,
cazzo F. che cos'hai fatto, cerco di girarla, di metterla su un fianco, non so perché ma so che è così che bisogna fare, e girandola la guardo in faccia. Il rosario le penzola dal collo come al solito, le palpebre semiaperte rivelano gli occhi rovesciati all'indietro, il colorito grigio e innaturale che la siccità conferisce alle terre delle mie parti, le labbra spaccate e bluastre.
E' morta - mi dico -
andata. Non respira, e manco io sto respirando, ho la gola stretta in una morsa, passa a stento un filo d'aria.
Cazzo, F. perché mi hai fatto questo, perché proprio qui e non da qualche altra parte. E' assurdo ed egoistico, ma l'aria non mi arriva al cervello e sento che sto solo posticipando un attacco di panico di quelli epocali. La prima persona a cui penso è la Knox, penso a Vespa che sguazza nel tracciare l'identikit del giovane killer, penso a un revival delle teorie di
Lombroso: Amanda Knox, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi, Sunofyork. Tutti giovani, tutti
biondicci e dall'aspetto angelico. Poi la razionalità nella follia:
D. Mi avrebbe tirato fuori lei dai guai. Lei e tutti quelli che conoscono me e F. possono testimoniare che era depressa, che erano mesi che dava segni di squilibrio e forte depressione, che avevamo fatto qualsiasi cosa per aiutarla.
Ok, forse me la cavo. Mentre faccio questi pensieri, le sono inginocchiata accanto e mi è venuta una forza fisica prima sconosciuta: giro ancora F. come fosse una bambola di pezza, le alzo le gambe, e a un certo punto lei tossisce. Cerco di rimetterla su un fianco in caso dovesse rimettere, inizia ad avere delle convulsioni e vomita,
F. che cosa cazzo hai preso, ti prego dimmelo, poi riperde conoscenza. Ma è viva. E' viva e io devo fare qualcosa, vado in cucina, ho solo del Dietor, porca miseria, mi ricordo che D. aveva conservato in caso di cali di pressione due bustine di zucchero di canna prese da un bar in cui avevamo fatto colazione la settimana prima. Nel frattempo sto avendo un infarto e contemporaneamente annego in un liquido vischioso, vorrei solo scappare, poco ma sicuro, ma trovo le bustine, ci faccio due tazze di acqua e zucchero enormi, una per me e e una per lei, una la bevo subito rovesciandomela praticamente tutta addosso per quanto mi tremano le mani, mi affretto per il corridoio ripetendo ossessivamente tra me e a me
qualcuno mi aiuti qualcuno mi aiuti qualcuno mi aiuti, per tirarmi su nel frattempo mi bevo anche l'acqua e zucchero per F. che ancora non riesco a far riprendere, corro giù scalza per le scale di casa, citofono al piano di sotto e di tutta risposta ho un "chiama il 118", torno su, effettivamente chiamo il 118. F. ora ha aperto gli occhi ma non riesce a parlare, sembra lontana, oltre una lastra di vetro. Le dico
stai tranquilla, arriva l'autoambulanza, non ti muovere di qui io mi allontano un attimo. Vado in camera, non riesco più a reprimere l'attacco di panico, non riesco a star ferma, so che devo fare: chiamare mia madre. "Mamma parlami", non sono in grado di spiegarle cosa sta succedendo perché qualcosa mi strozza, non riesco nemmeno a piangere. Mia madre capisce, inizia a raccontarmi la sua giornata mentre io mi soffermo solo sulla respirazione. Posso guardarmi riflessa nello specchio della parete di fronte, sdraiata sul letto con le gambe alzate sul muro, le braccia spalancate, i capillari scoppiati per lo sbalzo di pressione che conferiscono alle palpebre un colore violaceo.
Ed è in questo stato che mi trova il ragazzino lentigginoso del 118 quando entra in casa, trovando la porta d'ingresso aperta. E' alto un metro e una lenticchia e peserà attorno ai 50 kg. Mi squadra atterrito. Nel palazzo non c'è l'ascensore.
No, tranquillo, non è me che devi portare in braccio giù per le scale.(Stava per avere un attacco di panico pure lui, secondo me)
Solo molte ore dopo, con F. ormai in reparto e sotto controllo, in un asettico bagno d'ospedale piastrellato di bianco, riesco ad abbandonarmi a un pianto disperato.
F. ora sta bene, o almeno meglio. Abbiamo quasi superato l'episodio. Le ho imposto di usare un nome in codice se deve chiamarmi per motivi non gravi in modo da risparmiarmi infarti inutili. E, ovviamente, ho imparato che devo sempre avere lo zucchero in casa.