Yes, darling. Life sucks

Learning how to cope since 1982

Erano gli anni in cui io e l'amico K. si faceva tardi a parlare nelle notti stellate, ci si rifugiava in birrerie altoatesine e si duettava pianoforte-chitarra sulle note di Blank Page e For Martha. Erano gli anni in cui l'amico K. si buttava a capofitto nel cantautorato e mi dedicava straordinarie canzoni, una delle quali recava lo splendido titolo di "L'impossibilità della felicità" e sono certa un giorno diventerà una hit. Il testo, degno del miglior Brassens, è scolpito nella mia memoria e recitava più o meno così: è per l'uomo amato/il giorno troppo breve/amare dà felicità (acuto)/ è per l'uomo triste/il giorno troppo lungo/ soffrire dà infelicità (altro acuto), e così via, e vabbè, l'ultimo emistichio a livello logico non fa una grinza, soffrire procura davvero infelicità (ma va?), sul fatto che amare dia felicità, invece, avrei i miei dubbi ma all'epoca si era young and foolish (and now we're full of tears) e quindi un po' di ingenuità ci poteva stare.
Erano gli anni in cui io e K. saltavamo su gelidi espressi per raggiungere un'innevata Genova e trascorrere il capodanno in barca con amici. Erano anche gli anni in cui all'amico K. potevano venire in mente brillanti idee del tipo "dai, visto che siamo pugliesi e ci stanno ospitando così carinamente, perché non prepariamo i panzerotti* per tutti? Prometto che faccio tutto io, tu mi aiuti soltanto a stendere la massa".
Ora, come già ho detto secoli fa, l'uomo in cucina o fa un gran casino utilizzando il triplo delle stoviglie necessarie alla preparazione del piatto, oppure si limita a dare direttive alla povera crista di turno e a prendersi tutto il merito. Bene, K. appartiene alla seconda specie, quella degli "uomini di concetto". E infatti in quell'occasione, il massimo dell'aiuto (pratico, perché invece l'apporto teorico da ingegnere informatico fu rilevante nel determinare il tasso di crescita esponenziale della mia rabbia) che ottenni da K., fu quello di vederlo sollevarmi le maniche della camicetta che, nell'impastare chili e chili di farina, si stavano inzaccherando, mentre il genio discettava coi suoi amici dello spessore ottimale della massa e del grado di umidità del ripieno. E vi dirò di più, non mi fu nemmeno di grande aiuto nella frittura, tant'è, che distrattami un attimo per rivolgergli uno sguardo carico d'odio, calai il dito indice nell'olio bollente. Solo quando, con gli occhi pieni di lacrime, gli chiesi di continuare lui a friggere, con la sua atavica lentezza, indossò il grembiule e mi lasciò andare in bagno, dove scoppiai in un pianto convulso con tanto di urla, strepiti e battiti di piedi modello bambina di cinque anni arrabbiata perché si è fatta male in modo stupido, dopodiché uscii col dito indice ormai privo di impronte digitali, mi diressi in camera e lì mi accasciai sul letto svenuta, il tutto mentre K. dava vita alla famosa leggenda "sul giorno in cui impastò da solo due chili (un decimo del suo stesso peso, in pratica) di massa e preparò panzerotti per 10 persone mentre Sun dormiva beatamente in camera".

(per i non pugliesi, il panzerotto sarebbe un calzone, massa richiusa a forma di mezza luna con dentro mozzarella e pomodoro e fritta in olio bollente, comunque potete sempre passare da via broccaindosso, seguire la scia e venirli ad assaggiare da me, soprattutto se siete trentenni ricchi di fascino).

Sabato 12 settembre, via Broccaindosso -da me soprannominata via Sbroccaindosso per la quantità di pazzi che vi abita o anche "la via in cui qualcuno molto arrabbiato potrebbe romperti una brocca indosso" secondo un fine umorista- è chiusa al traffico dalle 9 alle 21 per la festa autogestita, grande momento di socialità del quartiere. Bancarelle di antiquariato, musicisti di strada, rumorose tavolate con gente che pasteggia sotto il portico e venditori di pessimo lambrusco e sangria chimica a un euro al bicchiere. Visi conosciuti a cui finalmente viene dato un nome.

h.9.00: vengo svegliata da una banda di cornamuse. Apro gli scuri, fuori c'è il sole, suonano Auld Lang Syne. E' assolutamente fuori tempo e fuori luogo, non siamo a capodanno nè in Harry ti presento Sally, ma mi commuovo un po' ripensando alle vecchie conoscenze perdute. Un ricordo a DFW, volato via troppo presto, ormai un anno fa. Poi le telefonate in rapida sequenza di tre vecchie conoscenze che perdute non lo saranno mai, e che, seppure fisicamente lontane, sono incredibilmente prossime in tutto il resto, più quella di una nuova, bellissima presenza, mi strappano alla malinconia del sabato bolognese.

h.11: la strada si anima. Il restauratore vende i suoi mobili in strada, spuntano bancarelle di libri dalle pagine ingiallite e l'odore inconfondibile di mani altrui, tessuti a metraggio, collanine di corallo, vasi in porcellana. I bambini approfittano della chiusura al traffico per giocare a pallone nel vicolo e allestire bancarelle di giocattoli usati. Atmosfera di strada, di paesone, di festa del popolo, di ricordi di un tempo in cui anch'io allestivo bancarelle in strada, rubando gerani&perle di mia madre e rivendendole a mille lire (sia i gerani che le perle) al matto del paese per comprarmi un Super Santos. Troppi ricordi, troppa poesia buttata alle spalle. Trattengo le lacrime solo perché non voglio passar per una femminuccia.

h.14: ripasso sotto casa con un'anima bella, ci viene offerto da mangiare e da bere dagli abitanti della strada che intanto son scesi con i loro tavoli, il vino e i cibi cucinati con le loro mani. Due crostini, due chiacchiere con la parrucchiera Anita, una spulciata ai libri vecchi, bello, affascinante, magico, ma anche un po' caotico, decidiamo di salire a fare quattro chiacchiere in tranquillità.

h.16: soggiorno di casa con finestre aperte. Vorremmo parlare, il gruppo di salentini scatenati sotto casa non è d'accordo. E' il momento della pizzica in strada. Decidiamo di cambiar zona. Carina questa festa di via Broccaindosso, fa molto De Andrè, molto Via del Campo, dice l'anima bella.

h.19: rientrando a casa da sola, un mucchio di gente entra al civico 20, dove per anni ha abitato Giosuè Carducci e ha scritto Pianto Antico per il figlioletto Dante. Mi accodo e mi si para davanti agli occhi uno degli interni più belli di Bologna: un cortile rialzato con siepi a delimitare una sorta di labirinto, e il melograno, proprio lui, l'albero a cui tendevi la pargoletta mano/il verde melograno/da' bei vermigli fior. Un reading di poeti bolognesi. Bello, bellissimo, ma c'è qualcosa di strano nel modo in cui leggono, con la bocca impastata e l'alito impestato del lambrusco bevuto in strada. E le poesie, diciamocelo, fanno un po' pena. Vado via.

h.19.30: fuori il delirio. Un gruppetto con clavicembalo, viola, violini e fisarmonica dà spettacolo su musiche tzigane. Due minuti di estasi dionisiaca dopodiché mi snervo, la gente mi viene a sbattere contro, voglio rientrare a casa. Davanti al porta si è piazzato un gruppo di freakkettoni con chitarra che cantano le loro lagne sessantottine. Biascico un "e fatemi passare, buoni a nulla" e sbatto il portone.

h.20.30: degli stronzi punkabbestia hanno allestito una vera e propria console da dj sotto le finestre della mia stanza da letto con tanto di casse più alte di me. Ormai tutta la strada è ubriaca e non oppone resistenza, e loro sparano musica a palla. Su Kalashnikov di Bregovic ho un momento di entusiasmo anch'io, ma poi sono stanca, mi stendo sul letto e il rumore mi sta uccidendo. La provvidenziale Serena mi trascina a cena in un posto poco distante ma decisamente silenzioso. Mi convinco che al mio rientro sarà tutto finito.

h.22.30: rientro a casa, illusioni infrante. Dalle musiche balcaniche si è passati alla samba. Gruppi di invasati ancheggianti bloccano le macchine, ormai autorizzate a passare, con degli stronzi trenini che mi auguro deraglino al più presto.

h.23.: sirtaki. La vecchia battona del civico accanto ballando si alza la gonna e non ha le mutande. Non aggiungo altro.

h.23.50: Techno. Sento il parquet che mi vibra sotto i piedi a ogni basso di Around the world e penso che le fondamenta del mio palazzo sono seicentesche e non resisteranno a tutti quegli unz unz. Provo a chiamare mia madre per dirle addio ma dice che non mi sente perché il rumore in sottofondo è troppo forte. Certo che è un bel contrappasso per una che non è mai voluta andare in discoteca, trovarsela praticamente in casa. Odio il mondo intero.

h.0.30 i dannati festaioli danno prova di non conoscere o non essere interessati a il teorema di Brigitte Bardot (quando in una festa si arriva a canzoni tipo Brigitte Bardot Bardot, AEIOU Ipsilon, Ymca, it's fun to stay at the ymca o Brazil lallalalalalalala, è ora di chiudere i battenti perché si sta davvero degenerando).

Si accettano scommesse su cosa farò se non la smettono entro mezz'ora.
Scendo con una spranga di acciaio? Pentolone d'olio bollente dalla finestra in stile medievale? Fucile a pallettoni? Sassaiola? Kalashnikov (non quello di Bregovic?). O peggio. Mi unisco anche io al nemico?

Come già ho accennato in altri post senza però spiegarne il motivo, tra febbraio e marzo dello scorso anno si è consumato uno dei momenti più drammatici della mia esistenza: ho chiuso i rapporti con Mario. Mario, il mio punto di riferimento, la mia colonna portante, il contrafforte marmoreo per ogni mia insicurezza, consigliere fidato e mano amica. Il mio stilosissimo (direbbe lui, causandomi un conato) parrucchiere in centro a Bologna.
Antefatto. Da Mario ero approdata dopo una serie di sciagure: la parrucchiera cinese che mi tagliava i capelli posizionandomi una scodella in testa e seguendone il bordo per non sbagliare, l'ossessivo-compulsivo che partiva con una spuntatina e mi trasformava in Nikita (ma perché non capiscono mai quando gli chiedi di tagliarti solo le doppie punte? possibile che nelle scuole per parrucchieri non insegnino a spuntare i capelli di un centrimetro ma minimo di mezzo metro?), Anita, la prorompente sessantenne che ha nella mia via un salone anni Cinquanta, con enormi caschi e carta da parati avorio, che tu ci metti piede e ti sembra di essere entrato in un romanzo di Richard Yates, la quale mi metteva enormi bigodini e cotonava i capelli come una sciura milanese.
Poi è arrivato Lui. Salone in pieno centro, due piani con ogni strumento di tortura possibile e immaginabile, sala d'attesa con poltrone soffici come nuvole e copie intonse di Vogue (qualcuno ha qualcosa da dire su Vogue?), una decina di schermi lcd sparsi in ogni ambiente con scene di sfilate e interviste a hairstylist famose, musica soffusa, atmosfera lounge, assistenti che ti massaggiano il cuoio capelluto con olii profumati.
E poi Lui. Lui, delizioso, nel suo total black Armani, che ti viene incontro sfarfalleggiando e urlandoti "caraaah ma sei un disastro, ma guarda che occhiaie, vieni qui che ora la mamma si prende cura di te!" con una voce così acuta che solo i pipistrelli riuscivano a captare le sue frequenze. Lui e il suo "come ti senti oggi, più Anna (Wintour, ndr) o Ilary (Blasi, ndr)?" (nel gergo degli hairstylist: con o senza frangia?). Lui e il suo "tutti stronzi questi maschi". Sempre Lui, più che un parrucchiere, che trasformando con una piroetta e una sforbiciata il capello lungo e bohemienne in un carrè sfilato e iperglossy (sento i maschi rabbrividire), mi ha lasciato intravedere il miraggio di una possibile risoluzione del rapporto più complesso che una donna si trova ad affrontare nella propria vita, quello con i propri capelli, lisci come spaghetti, ricci, di qualsiasi colore o lunghezza, sempre motivo di infinite nevrosi.
Cioè, voi pensate solo alla sottoscritta: capello tendenzialmente liscio senza particolari problemi, capace di tenere la piega, di un biondo scuro che tende a spostarsi sul color miele d'estate - e infatti domani ho intenzione di scurirli per sancire la fine della stagione. Il tipico capello senza infamia e senza lode, insomma. Eppure. In 15 anni avrò cambiato infiniti colori (varie sfumature di rosso, castano scuro, biondo chiarissimo, passando anche per look punk con ciocche blu e fuxia durante la fase della ribellione adolescenziale) e altrettanto infiniti tagli e acconciature, visto n-mila parrucchieri, comprato prodotti per capelli per una cifra impronunciabile e vergognosa, provato a arricciarli in tutti i modi conosciuti, a renderli ancora più lisci usando acidi, qualsiasi cosa pur di non metterli in piega, uscire nelle brume padane, e , dopo un secondo, vedermeli dritti in testa stile ultimo dei mohicani. Ma ancora non ero soddisfatta.

E qui ritorniamo a lui, Mario, che per tanto tempo mi ha soddisfatta e ha colto la mia esigenza di rinnovamento, per poi deludermi proprio il giorno in cui avevo un appuntamento con un tizio che mi piaceva parecchio. Appuntamento a cui l'adorabile Mario mi ha fatto arrivare come una Raffaella Carrà dei poveri, con tanto di caschetto bombato anni Ottanta.

Ragazze mie, so che potete capirmi. Cosa avrei dovuto fare, accogliere il fortunato con un turbante in testa o aprirgli la porta ballando il tuca tuca, distogliendo l'attenzione dall'obbrobrio n.1 (la scarcella che recavo in testa) per spostargliela sull'obbrobrio n.2 (me che ballo)?
E voi, omìni cari, complimentatevi spesso con le vostre donne per le loro acconciature, anche se non vi importa, anche se non ci credete, fate una buona azione.
E non obbligatele mai a indossare un casco per venire in moto. Mai.

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