Yes, darling. Life sucks

Learning how to cope since 1982

Avrei voluto scrivere tanto.
Ma poi la verità è che questi anni si riassumono con poco: un grande amore, un grande errore, tante pagine lette, luoghi visti, tetti rossi, progetti realizzati, lotte perdute, foto scattate, parole ascoltate, persone incontrate perdute mai partite ritrovate riperdute, due nascite, molti sorrisi, troppi treni, troppe lacrime, troppi tasti pigiati, baci e carezze che quelli, invece, non son mai troppi, un'assenza grande e una speranza che mi sussurra all'orecchio che ne vale la pena.

One by one, they were all becoming shades
J.Joyce

Cari, è il 23 dicembre, ho 27 anni e ho molta paura.
Paura non del domani, ma di domani. Paura non che, per l'abituale giro in centro del 24 in cui si ritrovano ogni anno persone che non vedi da secoli, i miei capelli possano non essere setosi e la mia pelle vellutata come sarebbe opportuno in queste situazioni. Non che possa non trovare l'abito adatto a urlare al mondo che sono una gnocca con la testa, come prima più di prima. Paura non di non riuscire a trovare le parole per raccontarmi a volti sempre uguali la mia vita dell'ultimo anno.
La mia paura più grande, relativa al 24 dicembre e in particolare al cenone della Vigilia, è mia nonna, che prima ci stordisce con quintalate di pesce e ettolitri di pessimo vino (quello buono lo tiene sotto chiave per le serate in solitaria), poi, quando tranne lei -vista la sua tenuta all'alcol non me ne stupisco- tutti gli altri barcollano, ti infila La Domanda, che suona più o meno così: "mè, e stu cazz d zzit allor 'u tin o no? megghj c t'u trov mò, che sì tost comm nu cazz d'cavall" (giunonica nipote, dimmi dunque, esiste un uomo sulla terra che abbia l'onore di averti come fidanzata? perché sarebbe il caso che te ne trovassi uno al più presto, prima che le tue carni, ora sode, si sfaldino sotto il peso degli anni), seguita a ruota da domande sulla situazione lavorativa/economica/medica, insomma, tutte quelle cose su cui durante l'anno sei colpevolmente carente ti vengono sbattute in faccia nel giro di 5 minuti, tra gli spaghetti alle vongole e un pezzo di baccalà fritto.
Unico modo per dare un taglio allo strazio, è far degenerare la discussione dal piano medico al quello dei decessi. Chiedere a mia nonna di aggiornarti sulle dipartite di conoscenti lontani, vicini di casa e compaesani le regala, oltre che l'occasione di dimostrare la sua incredibile memoria per i soprannomi irripetibili e per i legami di parentela, il sottile piacere di ribadire la sua natura di highlander, quando, attorno a lei, tutti gli altri cadono come birilli.

(tranquilli, a fine mese la smetto di scrivere come una dannata, è che ho deciso che questo blog deve avere una crescita lenta ma costante pertanto per il 2009 devo arrivare a 42 post in un anno, uno in più del 2008 e due in più del 2007)

Bene, amici, volevo dirvi che sto ovulando.
Sono una donna e sto ovulando, e cerco di tamponare la frustrazione di vedere l'ennesimo preziosissimo ovulo sprecato, trasformandomi nell'Angelo del focolare, faccenda che si esplica principalmente in tre modi:
-organizzazione pseudorazionale dei beni (maglioni suddivisi per nuance attenendomi rigorosamente ai colori pantone, libri suddivisi per formato, genere, simpatia dell'editore e abbinamento cromatico delle costine, biancheria intima in tre cassetti - da nonna/da battaglia/da gran serata);
-acquisto da buona allocca di articoli a prezzi maggiorati dai mercatini natalizi (prodotti di gastronomia valtellinese, miele biologico, vini emiliani, salsine in minuscoli vasetti colorati e stronzatine così);
-preparazione di ricette lunghissime e complessissime.

Soffermiamoci sull'ultima. Sapete già che la mia idea di inferno è una cucina dopo che ci ha messo mano un uomo, e sapete anche che spesso preparo delle vere e proprie leccornie ma che altri (amico K. parlo di te) se ne prendono il merito e/o mi sminuiscono. Dunque, ispirata da un pranzo domenicale in un agriturismo piacentino, ho deciso di trascorrere questo giorno di festa, non facendo l'albero di Natale (è già attivo da un mesetto, ormai) bensì fronteggiando la sfida ultima per ogni cuoco - e soprattutto per la sottoscritta, che cuoca non è ed è pure una terrona doc- ossia il brasato. Cioè, ragazzi, una roba micidiale che solo a dirla già mi tremavano le ginocchia.
E dunque vi dò la ricetta.
Aspettate di essere in ovulazione in modo da non aver problemi ad allungare il portafogli al macellaio che vi rifila un pezzo di manzo a peso d'oro. Poi recatevi allo scaffale dei vini e guardate il Barolo. Ditegli ciao ciao con la manina e dirigetevi sicure verso un più economico Nebbiolo. Arrivate a casa marinate per 12 ore la vostra carne nel vino a cui avrete aggiunto cipolle, carote, sedano e rosmarino. La mattina dopo non fatevi prendere dalla fretta di vedere il vostro capolavoro realizzato -sì, lo so che è una noia seguire per bene le ricette e che abbiamo fantasia sufficiente a rielaborarle, però in alcuni casi è meglio fare come farebbe un uomo, e cioè attenersi alla lettera senza prendere iniziative- quindi evitate di fare pensieri del tipo ma se lo tagliassi a pezzetti* si cucinerebbe prima e non dovrei farlo andare sul gas per due ore, e soprattutto, ricordatevi, se tagliate la carne a tocchetti e la fate cuocere per due ore mentre vi fate belle per gli ospiti (non dimenticate di farlo, soprattutto se se lo meritano), rischiate di servire dei blocchetti di marmo di carrara, che per quanto coreografici e utili in caso si volesse scolpire un David, risultano un po' indigesti. Comunque, infarinate la carne, soffriggetela nel burro e poi aggiungete la marinatura. Fate bollire a fuoco lento (brasare) e infine togliete la carne dalla pentola, passate col passaverdure la marinatura, aggiustatela di sale e di pepe e servite il tutto con del cemento a presa rapida, ops, scusate, polenta.
E, come direbbe l'impavido chef Guerrino, a Dio piacendo, alla prossima!
(solo che, dopo un piatto così, dubito ci sarà una prossima)
(però giuro, le orecchiette le so fare davvero)

*P.S.per Marianna: il vento li raccoglierebbe

“Ever tried. Ever failed. No matter. Try Again. Fail again. Fail better.” (S.B.)

Immaginate di essere da sempre dei lettori compulsivi e di volervi lanciare nel progetto kamikaze di aprire una casa editrice. Immaginate di emergere ogni tanto dal gorgo della burocrazia per vagliare le possibilità di pubblicazione all'interno di un panorama letterario sterminato e non sempre validissimo.
Immaginate di avere in mente uno scrittore piuttosto famoso a cui vorreste affidare una prefazione (no non è Samuel Beckett, ancora non sono da elettroshock ma ci stiamo quasi) e che siano settimane che ve lo state lavorando via mail per avere un appuntamento e bypassare il suo aggressivissimo agente.
Immaginate tutto questo, poi immaginate di salire su un treno scalcagnato e trovarvelo proprio di fronte.

Ecco, immaginato ciò, godetevi pure la magistrale interpretazione di Sunofyork ne I dialoghi dell'assurdo (feat. Trenitalia)

Sun (1.entusiasta come una bambina): ciao X, sono Sun, ci siamo scritti l'ultima mail ieri pomeriggio, non posso crederci, che fortunata coincidenza! Lasciami dire che i tuoi libri mi fanno impazzire e che è una gioia poterti stringere la mano di persona!
Scrittore (2.imbarazzato): ciao Sun, piacere di conoscerti.
Sun (3.parlantina-a-motore inserita e sempre più entusiasta): allora X, visto che abbiamo un bel po' di tempo per parlare (4.sospiro di gioia da parte dello Scrittore), ti spiego un po'il mio progetto...bè dunque, vedi, bla bla bla, ma siccome so che tu bla bla bla e non vorrei bla bla bla pertanto bla bla bla, e quindi pensavo che magari ti potrei affidare solo una prefazione al nostro secondo libro, che sono sicura ti piacerà un sacco, perché è brillante e fresco e bla bla bla e non posso pensare a nessuno più adatto di te a scrivere una nota introduttiva...

Passa nel frattempo il controllore, che si avvicina a me e allo Scrittore famoso per chiedere il biglietto, lo Scrittore risponde giustamente con un ferreo "abbonamento" senza esibire il titolo di viaggio, al che il controllore storce un po' il naso suscitando le ire della sottoscritta che inizia la filippica del ma sai chi è lui? è uno SCRIT-TO-RE FA-MO-SO, e Trenitalia dovrebbe essere O-NO-RA-TA di trasportare cotanta penna in giro per l'Emilia e non dubitare della sua buona fede - a questo punto lo Scrittore esibisce l'abbonamento- ecco, visto, ma cosa crede che siamo tutti una manica di incivili che bla bla bla. Il controllore esce di scena.
(5.lo Scrittore è stranamente taciturno ma dal sorriso si vede che è compiaciuto del suo futuro editore per la strenua difesa operata nei suoi confronti contro gretto controllore)


Sun (6.fiume in piena): pensa, si potrebbe fare una presentazione itinerante in una carrozza e bla bla e mio padre bla bla bla e poi bla bla e ancora bla bla e bla, ma non voglio stordirti di parole (7.nooo) ma penso che uno che ha scritto "Spatatrac" e "Supercalifragili" meriti azioni di marketing forti e innovative...
Scrittore (8. si schernisce intimidito): ma no, dai, ora non dire così...
Sun (9.commossa dall'understatement dello Scrittore): su, ora non essere modesto, tu sei pubblicato da bla bla bla e anche bla bla, e per me sarebbe un onore avere qualcosa di tuo, anche solo una prefazione bla bla
Lo Scrittore Illuminato (10. sorridendo benevolo davanti a tanto entusiasmo): certo, però solo una prefazione, sai, ho già tanto da scrivere...oh, ma ecco la mia fermata.

E' anche la mia, scendo, gli stringo la mano, mi dirigo saltellando dove mi dovevo dirigere e lì comunico l'impresa. Passano le ore, arriva la sera, si dorme. Durante la notte mi metto a pensare all'accaduto. La mattina consulto Google Images come se fosse l'oracolo di Delfi.

Sostituite i numeretti 1-3-6-7-9 con "boccalona"
e i numeretti 2-4-5-8-10 con "paraculo"
e tirate voi le somme.

Avete presente quando avevo intitolato il post sulle borse, "Il definitivo post aliena maschio?". Mi sbagliavo. I maschi me li alieno adesso (cioè, in realtà sono ventisette anni che non faccio altro, ma ora diamo la mazzata finale).
Scopo di questo post, infatti, oltre a mostrarvi la mia commovente perizia con photoshop, è spiegarvi come dovrebbe essere il calcio secondo me. Ora, a me il calcio non dispiace, anzi, insieme a nuoto, cartoni animati e documentari di National Geographic è una delle poche cose che riescono a tenermi imbambolata sul divano senza che mi impegni in quelle attività compulsive come tamburellare con le dita, mordicchiare cuscini e battere nervosamente il piedino per terra, che molti trovano insopportabili (al contrario l'ascolto dei racconti delle vacanze e dei sogni altrui, dei riassunti di libri e film, la visione di sci e ciclismo amplificano queste nevrosi). E dunque, ciò che manca davvero al calcio perché io possa diventare una fan scatenata -dello sport, non di una squadra in particolare, non mi importa la competizione, ricordatevi che è solo un gioco- è la qualità estetica.
Tralasciamo lo stadio, perché è contro la mia religione recarmi in un posto in cui paghi per entrare e non ti danno da bere uno spritz o un gin tonic, prendiamo il caso in cui tu te ne stai beatamente sul tuo divano sintonizzata sul sito che dà la partita in streaming, con un alcolico in mano, del cibo nell'altra e le gambe allungate su uno sgabello.
Cos'è che non va, ancora? E quali migliorie mi frullano per la testa mentre mi vedete lì a occhi sgranati davanti allo schermo?
- il campo: non sarebbe meraviglioso se al posto del dischetto centrale ci fosse davvero un cuoricino rosso, se le reti fossero color argento sbrillucicante e così anche le linee, e se il campo fosse delimitato anziché da quegli orridi cartelloni pubblicitari da delle siepi di bossi, ligustri o acanti? E magari un ruscelletto con dei ponticelli di legno al posto della pista per l'atletica?
- le divise: ok, probabilmente quel tessuto tecnico dall'aspetto sintetico è quanto di meglio la tecnologia è stata in grado di inventare per far traspirare la pelle dei calciatori, ma di giocare a torso nudo e slip non se ne parla proprio, vero?
- i tempi: ne farei 4 da 20' l'uno (noi donne dobbiamo spesso recarci in bagno perché abbiamo la vescica piccola), inframmezzando il terzo e il quarto tempo con una pausa per il tè da venti minuti in cui i ragazzi fanno merenda con tortine alla carota e kamut e tè bancha servito in porcellane ming.
- gli arbitri: eliminiamoli, oppure vestiamoli con delle divise non catarifrangenti (che ne so, una polo piquet pastello e short sabbia o blu è chiedere troppo?) e sostituiamo l'orrido fischietto-offendi-timpani con un campanellino di Thun amplificato o un organetto a manovella di quelli che sembrano dei carillon che suoni la Vie en rose o quello che vi pare, ma fate qualcosa per questa gente. Hanno un ruolo troppo punitivo: diamo loro un cartellino fuxia per sottolineare azioni particolarmente spettacolari, lasciamo che anche loro facciano la parte dei buoni di tanto in tanto.
- i modi, cazzo, i modi!: a questo proposito, pensavo, non sarebbe bello per tutti sostituire i gesti bruschi, le gomitate, gli sgambetti, i calci negli stinchi, gli sputi, con una ragionevolissima base di danza classica? Cioè, ma voi immaginate che bello se Cassano dovesse correre en dedans, se i gol segnati mentre si eseguiva un port de bras o un arabesque valessero doppio, e triplo quelli segnati mentre ci si dilettava in un fouettè? E se alla fine ci si abbracciasse tutti -vincitori e vinti- in un grande girotondo? E se fosse vietato coprirsi gli attributi con le mani mentre si fa barriera e si lasciasse tirare il rigore a una fidanzata livorosa?

Insomma, se li vorranno pure guadagnare tutti quei soldi 'sti giocatori!
(ve lo meritate, dannati rovina-sabati)

Amico K., che pesi quanto pesavo io in quinta elementare ma solo perché già mi ero messa a dieta allora,
che mai avrei pensato che un fuscello così sarebbe diventato una colonna portante della mia vita,
che al nostro primo appuntamento alla Feltrinelli vecchia, ti sei presentato in short bianchi, t-shirt, calzini di spugna e scarpe da tennis manco fossi Pete Sampras,
che quando ti guardo, mi prenderei a sberle da sola per non essere riuscita a far funzionare le cose,
che quando attacchi con le tue paranoie, riesci sempre a farmi benedire il signore per non essere riuscita a far funzionare le cose,
che mi hai insegnato che non sempre tutto è perduto, e che dall'amore si può passare ad altro, e che quest' "altro" non sempre è peggio, ma di certo è diverso,
che ogni volta che mi vedi, mi chiedi se ti voglio bene e se ti posso dare un abbraccio, e io ti mando a quel paese e ti dico che sei una mammoletta e che non troverai una donna,
che ti lasci prendere in braccio da me davanti ai tuoi amici e ti abbarbichi come se fossi un koala su un eucalipto,
che ti addormenti in qualsiasi posizione nel giro di 15 secondi,
che ogni volta che sento Tonight, tonight, non posso fare a meno di correre con la mente a quella sera,
che quando vivevamo qua a Bologna, la mattina ti alzavi in punta di piedi per prendere il treno per Milano senza svegliarmi,
che sei il profeta della filosofia "lamentous" e che i tuoi aforismi ci lasciano sempre basiti (devo ricordare uno dei nostri dialoghi? "K. la speranza è l'ultima a morire" - "sì, Sun, ma a volte morire è l'ultima speranza"),
che per tanto tempo mi sono detta che non avrei trovato mai più qualcuno di cui innamorarmi così,
che come riesci a esasperarmi tu anche solo in una telefonata, nessuno, e che fai il vocino flebile ma continui a ronzarmi nelle orecchie fino a quando non mi prendi per sfinimento,
che ti chiamano al telefono la notte di san lorenzo e ti chiedono cosa stai facendo, e tu rispondi "corro da solo nel buio", e il bello è che è vero,
che sei talmente tanto una macchietta, che non ho potuto non creare il personaggio dell'amico K. su questo blog e su facebook il "Parla con Krapp",
che sei e sarai la mia famiglia, e saprai sempre tutto per primo,
che mi fai conoscere ogni giorno un gruppo nuovo che conosci solo tu, e vai a un concerto diverso ogni sera, e ti smazzi mezza Italia per sentire per la trentesima volta Manuel Agnelli anche se il giorno dopo devi andare al lavoro (e non credere che qualcuno ci creda al fatto che hai intenzione di fermarti, benedetto navigante con l'acqua alla gola),
che volevamo andare alle valli di Comacchio ma non siamo mai riusciti a trovarle, e allora ci siamo accontentati di attraversare un fiume e comprare un cocomero,
che non hai ancora trovato l'amore come meriteresti, il che mi fa pensare che forse noi donne non siamo poi così furbe,
Amico K. per i tuoi 30 anni vorrei potertelo trovare io l'amore, ma sai che sono pasticciona già per le mie faccende, figuriamoci per le tue, e allora ci faccio un post.
Incrociamo le dita e speriamo funzioni come inserzione.

Che poi, io, quando vi parlai dell'Afflitta (qui e qui), mica ci pensavo che avrebbe potuto spiccare il volo e lasciarci con un palmo di naso. E invece sì, il personaggio più letterario di questo blog, la nostra Madama Butterfly, dopo infiniti pianti, scontri, discussioni, patemi e ritorsioni, ha deciso -con enorme sollievo mio e di D., la fortunata coinquilina munita di fidanzato perfetto- di lasciare l'appartamento di via Broccaindosso, e per farlo ha adottato uno stratagemma che per ingegno è paragonabile solo ai tranelli del multiforme Ulisse, il che non solo è sorprendente in sè, ma è tanto più sconvolgente se si considera che un simile gesto è stato partorito da un organismo ectoplasmatico che ha trascorso l'ultimo anno raggomitolato su una sedia con addosso una vestaglia rosa di Hello Kitty.
Ora, per capire la scaltrezza dell'ameba, dovete sapere che, come molte case dei centri storici che per via dei diversi rimaneggiamenti si trovano ad avere delle planimetrie escheriane, anche la nostra casa si snoda attraverso cunicoli stretti e bassi (frequenti i traumi cranici per quanti sono più alti di 1.77), scalette, archi, controsoffitti, cantine che sembrano segrete medievali, finestrelle nascoste e anditi. Ma l'elemento che caratterizza davvero questa casa è il suo essere articolata attorno alla scala del palazzo in quanto derivante dall'unione di due appartamenti. Due appartamenti significa anche due entrate e una di queste entrate, per l'appunto, rappresentava l'accesso privato alla camera dell'Afflitta. Che quindi ha pensato bene di fare il trasloco nottetempo, mentre di qui, in soggiorno, io e la D. ci ammazzavamo dal ridere su battute del tipo "Oh ma ci pensi se l'Afflitta fa il trasloco di notte e ci lascia con un palmo di naso?".
E così ha fatto. Non avendola vista spuntare dalla sua stanza per 72 ore -fino a 48 nulla di strano, avvezza com'era a questo comportamento letargico- impaurite (visti i precedenti) e tenendoci la mano, io e D. siamo andate a bussare alla sua porta ma senza ottenere un cenno di vita. Dunque, considerata la mia natura da cuor di leone, l'istinto è stato quello di dichiarare l'ora del decesso, girare i tacchi, e andarmene per la mia strada. Ma la partenopea D., facendomi violenza, mi ha spintonato contro la porta usandomi come ariete e siamo ruzzolate dentro la stanza dell'Afflitta.
Stanza che si è rivelata così vuota che per un attimo ho temuto di essermi inventata il personaggio dell'Afflitta in un momento di crisi verso il blog ma poi, effettivamente, mi sono resa conto che nemmeno la mia fantasia può tanto.
Telo di plastica sul materasso, armadi svuotati, ogni traccia del passaggio di un essere umano, cancellato. Idem per i quattrocento euro che l'Afflitta ci doveva e che mai più rivedremo.
Pazienza, l'idea dell'Afflitta che alle tre di notte si carica sulle spalle la libreria e scende le scale ripide del palazzo è talmente gratificante che mi vengono le lacrime agli occhi.
(e anche il poterle inviare sms sul genere "Bologna è piccola...tanto piccola...ti troveremo")
(e anche il fatto che ha lasciato il posto a una nuova, splendida coinquilina, la donna di marketing simil uma thurman, che si sveglia la mattina col capello perfetto e che la sera sta con me e D. a fumare e parlar male degli uomini)
(e anche non dover più assistere alle mille e una follie dell'Afflitta)
E poi vuoi vedere che ha capito tutto? Che la fuga, nella vita, chi lo sa, che non sia proprio lei la quinta essenza?

Ma voi ce l'avete l'LSD (Lo Spasimante Devoto)?
Non per fare la splendida (no, no, signora mia, per carità, lungi da me), però io ho ne ho uno molto valido da poco meno di un anno. Un anno in cui mi sono capitati sulla noce del capocollo un discreto numero di cambiamenti che hanno richiesto una discreta quantità di rospi ingoiati e un altrettanto discreto lasso di tempo trascorso ad ascoltare canzoni tristi languidamente stravaccata sul divano. E lui era sempre lì sul ring con me, a farmi da sparring partner (o da Uomo-Schermo, come lo definii mesi fa), discreto ma presente, pronto a fornirmi il giusto apporto di carezze all'ego mentre io gli restituivo i colpi che prendevo dall'esterno, ignorando i suoi messaggi, le telefonate, le email, le chiacchierate e quello sguardo, che è davvero una veranda sul suo mondo.
Ecco, lo conobbi che ancora avevo una relazione stabile, vidi subito che si era preso una sbandata, anzi, me lo palesò proprio verbalmente. Poco dopo la relazione stabile finì, e lui lo venne a sapere da terzi (infami). Quando ci rivedemmo le cose andarono più o meno così:
LSD (speranzoso): ho saputo che sei tornata single...
Soy: sì, ma guarda, ch..
LSD (sturm-und-drang mode on): no, Sun, fammi parlare, ti prego, non l'ho mai fatto nella mia vita ma con te sento che devo aprirmi. Io mai nella vita avrei immaginato di incontrare una persona così, con cui trovarmi subito a mio agio, capace di farmi ridere e comprendermi, una persona con cui sento di poter condividere tutto, ma proprio tutto, e che non mi fa temere di guardare avanti nel futuro, una persona che addirittura avrebbe interrotto una storia importante solo per darmi una chance e stare con m...
Soy: e infatti avresti fatto bene a non immaginarti una cosa del genere.
LSD: nooo ma che hai capito?? io mica intendevo...
(segue stridore di artigli sugli specchi e tonfo sonoro)

Bene, non ci sarà alcun finale in cui io e l'LSD ci baciamo su un ring mentre sotto scorrono le note di Sparring Partner di Paolo Conte.
E a questo punto mi odierete tutti, uomini e donne (gli uomini li capisco, le donne no, tanto nessuna lo avrebbe mai preso seriamente in considerazione).
Ma non importa l'odio, il post lo scrivo lo stesso, perché, amiche mie, vi voglio bene e voglio propormi come exemplum in negativo.
Quanti sono pronti a scommettere che l'LSD presto avrà una ragazza meravigliosa, e io un'ulcera perforata?

Tu, miserabile amica materna che mi hai regalato quell'orrida borsa nera e lucida di finta pelle effetto coccodrillo, piena di borchie e ganci e cerniere e taschine manco io fossi una tamarrissima sciampista fidanzata con un appassionato di Harley Davidson.
Tu, donna scriteriata, che hai sentito la necessità di riciclare un regalo che ti avevano fatto negli anni ottanta e propinarlo trent'anni dopo a me, che in quella sorta di medioevo ellenico della moda, che ha visto belle donne ridicolizzarsi con capigliature improponibili, fouseaux fluo, spalline grandi come quelle di giocatori di rugby e accessori osceni, sgambettavo allegra nel girello sputacchiando omogeneizzati a destra e a manca.
Tu, che sei stata il mio spauracchio personale già in quegli anni, quando mia madre ti chiamava perché sapevi fare le punture di penicillina e io correvo come una pazza per casa per non farmi acchiappare perché in realtà lo sapevamo tutti che avevi la delicatezza di un panzer quando facevi le iniezioni, non credi di avermi già inflitto un sufficiente dolore fisico? Perché senti anche il bisogno di straziarmi il cuore con questo regalo di dubbio gusto?
Tu, che appunto mi conosci da sempre, e che quindi sai che me ne frego delle marche, che nell'abbigliamento per me vige sempre e solo il "less is more" e che raramente uso borse che non siano capienti tracolle in cuoio, come t'è saltato in mente di rifilarmi quell'accozzaglia kitsch che, per quanto firmata, faccio fatica anche solo a definire borsa?
Tu, che comunque sei donna e sai quanto per le tue simili possa contare quel meraviglioso accessorio quando hanno bisogno di una copertina di linus e quanto sia spaesante andare in giro con una borsa che non si sente propria; tu che presumibilmente sai che le borse - e gli uomini- minuti ti fanno sembrare più grassa di quello che già sei, facendoti sobbalzare ogni volta che passi davanti a una vetrina, mi spieghi il perché di quella sottospecie di pochette in cui non posso infilare nemmeno un libro smilzo come le Lezioni americane, non parliamo di Guerra e Pace?
Tu, donna di scarsa lungimiranza, sei consapevole del fatto che riciclando quel regalo hai innescato una spirale karmica per cui tra 30 anni mia figlia riceverà da una sua lontana parente /amica di famiglia quello stesso obbrobrio e scriverà un post forse anche più deluso e snob del mio?
Non ti bastava traviare me, pure mia figlia?

P.S. le foto sono puramente esemplificative. Ho semplicemente preso quanto di più brutto fossi in grado di trovare in rete e appiccicato qui sul blog perché sono con Aristotele (proprio linea diretta Aristotele-Sunofyork) nel sostenere la funzione catartica della scrittura, per cui spero che qualcuno veda quegli orrori e non faccia l'errore di comprare borse di quel tipo, una specie di "Cura-Ludovico", terapia dell'aversione di burgessiana (e kubrickiana memoria) solo molto molto più efficace, trattandosi di un pubblico femminile...

Cioè, cari, so solo io quanto odio iniziare una frase con cioè, e anche inframezzarla con un cioè, e terminarla pure, però il fatto è che mi sono emozionata e vi dovevo dire il perché di tanta emozione. Sul serio, sento di doverlo, soprattutto alle altre bloggers come me. A tutte quelle che mi leggono e che io leggo sempre con affetto, e che ogni tanto si lasciano scoraggiare da anni e anni di frequentazioni con maschi vili, sbagliati, piccoli come una lenticchia, egoisti come bambini dell'asilo, introflessi, incapaci di mettersi da parte e di sorprenderti, e che alla fine riescono a convincerti che quello giusto non arriverà mai.
E invece no. Io oggi sono qua per dirvi che gli uomini capaci di lasciarvi a bocca aperta ci sono.
E sono quelli che si sentono per una settimana i vostri rimbrotti telefonici perché siete stanche di una storia a distanza, perché vorreste che venisse a trovarvi più spesso fregandosene del fatto di avere un lavoro e una vita altrove, sono quelli che non si arrabbiano se cercate di farli sentire in colpa per qualsiasi cosa e che sanno pacificare i vostri dubbi. Che non vi prendono per pazze se una mattina spostate tutti i mobili. Sono quelli che la sera prendono l'alta velocità, si fanno 5 ore di treno, arrivano in stazione, prendono un autobus, arrivano in via Broccaindosso, citofonano imitando la voce del pizzaiolo pakistano a domicilio che fino a poco tempo fa era il vostro migliore amico (ora non più, visto che la dieta scarsale demonizza i carboidrati) finché tu non capisci che non è il pizzaiolo ma lui e ti scapicolli giù per le ripide scale di casa, lo vedi lì impalato con un fascio di rose in mano, e lo abbracci fortissimo ammaccando un po' i petali, e piangi anche mentre lui ti dice che sei bellissima e che si vede che la dieta sta funzionando, anche se in realtà per lui non ne avresti affatto bisogno.
Amiche mie, io oggi sono qui per dirvi che uomini così ci sono.
O almeno, uno c'è e io ne sono testimone autoptica.
E' fidanzato della mia coinquilina*, e in questo momento stanno limonando sul divano davanti a me.

Sarà un caso, ma stasera provo una strana simpatia per Amanda Knox.

*per le più scettiche di voi, no, non stanno insieme da un mese.

Qualcuno di voi avrà letto del mio amore totalizzante per Filippo Timi in questo post di qualche tempo fa dedicato a lui e al suo romanzo, quindi saprete che a seguito di quel post gli scrissi una mail in cui gli dicevo più o meno così "ho scritto di te sul mio blog, ma in realtà del libro me ne frego, era solo il pretesto per infilare una proposta di matrimonio. Non c'è bisogno che tu faccia niente, penso a tutto io (d'altra parte sono abituata all'inettitudine di voi uomini)", mail alla quale _stranamente_ non ho mai ricevuto risposta. Ebbene, tesori miei, domani Filippo Timi verrà a Bologna per conoscermi dopo un incontro in una splendida libreria del centro. Quindi, ragazzi cari, avanti con i consigli.
1. abbigliamento/accessori/trucco/parrucco. Suggeritemi qualcosa che sia sobrio, casual ma sexy, giusto ma non ammiccante, semplice ma non bacchettone, classico senza tempo ma non vecchio, e che gridi al mondo (la menzogna) che sono figa e intellettuale q.b. ma che la mia sensualità scaturisce da anima e cervello e non da ore e ore davanti allo specchio. Se questo vuol dire indossare un boa di struzzo iridescente, lo accetto.
2. Tavor. Qui la scelta è semplice: Sì o no.
3. proposta di lavoro allettantissima: come faccio a fargli passare il concetto che sto per aprire una casa editrice e che vorrei pubblicare qualcosa di suo, e che lui dovrebbe lasciar perdere le case editrici grandi e facoltose per pubblicare con me, che gli darei 50 euro di anticipo sui diritti?
4. atteggiamento:
- la butto in casciara come il mio istinto malato mi porterebbe a fare - il che vuol dire che al momento delle domande, mi alzo, mi impossesso con la forza del microfono, e gli dico che gli avevo scritto ma dato che non mi ha risposto, ho interpretato il suo silenzio come un assenso e che le pubblicazioni sono affisse in municipio, poi mi alzo e gli porgo un anello dei puffi trovato nell'uovo kinder?
- faccio la gatta morta - vale a dire, aspetto che finisca l'incontro, stampo il vecchio post, ci faccio una barchetta, vado lì con l'aria innocente di Bambi e le ciglia che fanno flap flap, nel frattempo nel risvolto interno della barchetta, con la perizia di un tipografo esperto di origami ci scrivo il mio numero di telefono e indirizzo di posta elettronica con un font grassetto corpo 40mila color fuxia catarifrangente, poi mi avvicino, gli faccio i miei complimenti, e gli regalo la barchetta dicendo che è una recensione del suo libro (pff).

Ogni suggerimento sarà ben accetto.

E così il Nobel per la letteratura è andato a Herta Muller, scrittrice tedesca di origini romene, che ha sbaragliato la concorrenza di grandi nomi come (l'immancabile) Amos Oz, Vargas Llosa e Philip Roth. L'avevo conosciuta un annetto fa grazie al suo romanzo, Il paese delle prugne verdi, storia di quattro giovani intellettuali dissidenti nella Romania di Ceausescu, edito da Keller -un piccolo e attento editore trentino che pubblica pochi titoli all'anno, ma quelli che pubblica, sono veramente belli e curati in ogni aspetto- e che mi aveva colpito per la sua poesia straziante dentro un clima di oppressione e miseria collettiva.
Lo dico per vari motivi, innanzitutto perché aprire una piccola casa editrice è anche il mio sogno (e vuoi vedere che il 2010 non lo veda realizzarsi, eh, cara la mia socia?), e avere in catalogo un vincitore del Nobel i cui diritti ho pagato due lire è più di un semplice sogno, diciamo che per me è l'equivalente di un sogno erotico che vede me protagonista assoluta insieme a due adoranti e incredibilmente lascivi Javier Bardem e Filippo Timi. In secondo luogo perché così ho l'occasione di raccontarvi un problema simpaticissimo che mi affligge da un po' di tempo. Bene, che in Italia ci siano più scrittori che lettori ormai è un luogo comune più o meno comparabile con perle quali non ci sono più le mezze stagioni e si stava meglio quando si stava peggio. Il che però significa che, per essere diventati luoghi comuni, un fondo di verità ce l'avranno anche loro, no? Direi proprio di sì, visto la quantità di gente che ricorre ad editori a pagamento che chiedono cifre assurde e non si preoccupano nè di promuovere nè di distribuire il libro e a siti di self publishing (uno piuttosto noto reca come sottotitolo l'inquietante "Se l'hai scritto, va stampato". Ma anche no! direi io) pur di ottenere un briciolo di quel lustro che dovrebbe conferire l'aver scritto qualcosa. Ecco, io non so voi, ma per me le parole hanno sempre avuto un peso enorme sin da quando scrivevo i temi delle elementari, un peso che si fa tanto più titanico quanto più leggo libri come quello di Herta Muller, o di altri grandi scrittori. Il confronto con loro mi dà la giusta percezione di cosa meriti di essere pubblicato e letto e cosa no: ed è per questo che io, come molti altri di voi, ho un blog che mi basta e avanza, e nessuna velleità da scrittore "vero". E invece non per tutti è così.
Il bello, quando lavori nell'editoria, è che tutti quelli che sanno di che ti occupi (quindi sanno anche che conti meno di zero ma fanno finta di non saperlo) tentano di rifilarti le loro cose (per un parere, una revisione, un'idea, una spintarella verso la pubblicazione), perché tutti hanno scritto qualcosa nella loro vita e tutti sono fermamente intenzionati a ottenere i loro cinque minuti di gloria. Con le dovute eccezioni positive, per la maggioranza, ciò che passa per le mie mani sono opere di zie che nel '68 componevano poesie lisergiche, amici wannabe scrittori, amanti del fantasy -perdonatemi, ma per me il fantasy è una piaga sociale-, conoscenti con l'estro letterario di una cozza nuda, parenti che scrivono memoriali sui loro imbarazzanti trascorsi sessuali, l'apologia del cane buonanima del dirimpettaio, il postino che mi lascia nella cassetta della posta un manoscritto fantasiosamente intitolato "Il postino suona sempre tre volte" (infatti, già dopo la prima hai scassato la minchia) e per finire Lui, il mio medico curante bolognese.
Ecco, il mio medico è un quarantenne single che ha l'ambulatorio tre portoni più avanti del mio e l'aspetto dimesso e vagamente kafkiano (solo l'aspetto, purtroppo).
L'altro giorno ci sono andata per farmi fare l'impegnativa per un'escissione dei nei -tre o quattro, li togliamo in comitiva, visto che fortuna vuole che sia particolarmente predisposta a questo flagello di dio- e insomma, una chiacchiera tira l'altra, ma di dove sei di dove non sei, ma quanti anni hai, ma cosa fai cosa non fai.
Sun: "Lavoro nell'editoria, principalmente traduco"
Dottore: "Ma davvero, e vuoi fare questo per tutta la vita?"
Sun: "Sì, ma vorrei aprirmi una casa editrice mia"
Dottore: "Ma che bello! Che coincidenza! Chiamami pure Marco!"
Sun, in preda a smottamento inguinale: "Perché coincidenza, dott. Marco?"
Doc, tirando fuori da un cassetto un enorme plico polveroso di fogli ingialliti con su una scrittura minutissima e fitta fitta: "Ho giusto qui una prosa poetica dedicata alla mia defunta madre, lo troverai di lettura un po' ostica, ma confido nella raffinatezza dei tuoi gusti e nella tua benevolenza".
E io che dovevo fare? Gli ho detto che ero già sommersa di fogli per casa ma quello mi ha chiesto la mail, dicendomi che doveva avere anche un pdf, e io non ho potuto non dargliela.
In tutto ciò, preso com'era a parlarmi della sua opera straordinaria, ha sbagliato a compilare l'impegnativa.
E vabbè, mi consolerò pensando che magari potrebbe essere un futuro Nobel della letteratura e trovarsi nel mio catalogo.
Avanti, coraggio, quanti di voi hanno un manoscritto nel cassetto e pensano di potermi far diventare un ricco editore?

Erano gli anni in cui io e l'amico K. si faceva tardi a parlare nelle notti stellate, ci si rifugiava in birrerie altoatesine e si duettava pianoforte-chitarra sulle note di Blank Page e For Martha. Erano gli anni in cui l'amico K. si buttava a capofitto nel cantautorato e mi dedicava straordinarie canzoni, una delle quali recava lo splendido titolo di "L'impossibilità della felicità" e sono certa un giorno diventerà una hit. Il testo, degno del miglior Brassens, è scolpito nella mia memoria e recitava più o meno così: è per l'uomo amato/il giorno troppo breve/amare dà felicità (acuto)/ è per l'uomo triste/il giorno troppo lungo/ soffrire dà infelicità (altro acuto), e così via, e vabbè, l'ultimo emistichio a livello logico non fa una grinza, soffrire procura davvero infelicità (ma va?), sul fatto che amare dia felicità, invece, avrei i miei dubbi ma all'epoca si era young and foolish (and now we're full of tears) e quindi un po' di ingenuità ci poteva stare.
Erano gli anni in cui io e K. saltavamo su gelidi espressi per raggiungere un'innevata Genova e trascorrere il capodanno in barca con amici. Erano anche gli anni in cui all'amico K. potevano venire in mente brillanti idee del tipo "dai, visto che siamo pugliesi e ci stanno ospitando così carinamente, perché non prepariamo i panzerotti* per tutti? Prometto che faccio tutto io, tu mi aiuti soltanto a stendere la massa".
Ora, come già ho detto secoli fa, l'uomo in cucina o fa un gran casino utilizzando il triplo delle stoviglie necessarie alla preparazione del piatto, oppure si limita a dare direttive alla povera crista di turno e a prendersi tutto il merito. Bene, K. appartiene alla seconda specie, quella degli "uomini di concetto". E infatti in quell'occasione, il massimo dell'aiuto (pratico, perché invece l'apporto teorico da ingegnere informatico fu rilevante nel determinare il tasso di crescita esponenziale della mia rabbia) che ottenni da K., fu quello di vederlo sollevarmi le maniche della camicetta che, nell'impastare chili e chili di farina, si stavano inzaccherando, mentre il genio discettava coi suoi amici dello spessore ottimale della massa e del grado di umidità del ripieno. E vi dirò di più, non mi fu nemmeno di grande aiuto nella frittura, tant'è, che distrattami un attimo per rivolgergli uno sguardo carico d'odio, calai il dito indice nell'olio bollente. Solo quando, con gli occhi pieni di lacrime, gli chiesi di continuare lui a friggere, con la sua atavica lentezza, indossò il grembiule e mi lasciò andare in bagno, dove scoppiai in un pianto convulso con tanto di urla, strepiti e battiti di piedi modello bambina di cinque anni arrabbiata perché si è fatta male in modo stupido, dopodiché uscii col dito indice ormai privo di impronte digitali, mi diressi in camera e lì mi accasciai sul letto svenuta, il tutto mentre K. dava vita alla famosa leggenda "sul giorno in cui impastò da solo due chili (un decimo del suo stesso peso, in pratica) di massa e preparò panzerotti per 10 persone mentre Sun dormiva beatamente in camera".

(per i non pugliesi, il panzerotto sarebbe un calzone, massa richiusa a forma di mezza luna con dentro mozzarella e pomodoro e fritta in olio bollente, comunque potete sempre passare da via broccaindosso, seguire la scia e venirli ad assaggiare da me, soprattutto se siete trentenni ricchi di fascino).

Sabato 12 settembre, via Broccaindosso -da me soprannominata via Sbroccaindosso per la quantità di pazzi che vi abita o anche "la via in cui qualcuno molto arrabbiato potrebbe romperti una brocca indosso" secondo un fine umorista- è chiusa al traffico dalle 9 alle 21 per la festa autogestita, grande momento di socialità del quartiere. Bancarelle di antiquariato, musicisti di strada, rumorose tavolate con gente che pasteggia sotto il portico e venditori di pessimo lambrusco e sangria chimica a un euro al bicchiere. Visi conosciuti a cui finalmente viene dato un nome.

h.9.00: vengo svegliata da una banda di cornamuse. Apro gli scuri, fuori c'è il sole, suonano Auld Lang Syne. E' assolutamente fuori tempo e fuori luogo, non siamo a capodanno nè in Harry ti presento Sally, ma mi commuovo un po' ripensando alle vecchie conoscenze perdute. Un ricordo a DFW, volato via troppo presto, ormai un anno fa. Poi le telefonate in rapida sequenza di tre vecchie conoscenze che perdute non lo saranno mai, e che, seppure fisicamente lontane, sono incredibilmente prossime in tutto il resto, più quella di una nuova, bellissima presenza, mi strappano alla malinconia del sabato bolognese.

h.11: la strada si anima. Il restauratore vende i suoi mobili in strada, spuntano bancarelle di libri dalle pagine ingiallite e l'odore inconfondibile di mani altrui, tessuti a metraggio, collanine di corallo, vasi in porcellana. I bambini approfittano della chiusura al traffico per giocare a pallone nel vicolo e allestire bancarelle di giocattoli usati. Atmosfera di strada, di paesone, di festa del popolo, di ricordi di un tempo in cui anch'io allestivo bancarelle in strada, rubando gerani&perle di mia madre e rivendendole a mille lire (sia i gerani che le perle) al matto del paese per comprarmi un Super Santos. Troppi ricordi, troppa poesia buttata alle spalle. Trattengo le lacrime solo perché non voglio passar per una femminuccia.

h.14: ripasso sotto casa con un'anima bella, ci viene offerto da mangiare e da bere dagli abitanti della strada che intanto son scesi con i loro tavoli, il vino e i cibi cucinati con le loro mani. Due crostini, due chiacchiere con la parrucchiera Anita, una spulciata ai libri vecchi, bello, affascinante, magico, ma anche un po' caotico, decidiamo di salire a fare quattro chiacchiere in tranquillità.

h.16: soggiorno di casa con finestre aperte. Vorremmo parlare, il gruppo di salentini scatenati sotto casa non è d'accordo. E' il momento della pizzica in strada. Decidiamo di cambiar zona. Carina questa festa di via Broccaindosso, fa molto De Andrè, molto Via del Campo, dice l'anima bella.

h.19: rientrando a casa da sola, un mucchio di gente entra al civico 20, dove per anni ha abitato Giosuè Carducci e ha scritto Pianto Antico per il figlioletto Dante. Mi accodo e mi si para davanti agli occhi uno degli interni più belli di Bologna: un cortile rialzato con siepi a delimitare una sorta di labirinto, e il melograno, proprio lui, l'albero a cui tendevi la pargoletta mano/il verde melograno/da' bei vermigli fior. Un reading di poeti bolognesi. Bello, bellissimo, ma c'è qualcosa di strano nel modo in cui leggono, con la bocca impastata e l'alito impestato del lambrusco bevuto in strada. E le poesie, diciamocelo, fanno un po' pena. Vado via.

h.19.30: fuori il delirio. Un gruppetto con clavicembalo, viola, violini e fisarmonica dà spettacolo su musiche tzigane. Due minuti di estasi dionisiaca dopodiché mi snervo, la gente mi viene a sbattere contro, voglio rientrare a casa. Davanti al porta si è piazzato un gruppo di freakkettoni con chitarra che cantano le loro lagne sessantottine. Biascico un "e fatemi passare, buoni a nulla" e sbatto il portone.

h.20.30: degli stronzi punkabbestia hanno allestito una vera e propria console da dj sotto le finestre della mia stanza da letto con tanto di casse più alte di me. Ormai tutta la strada è ubriaca e non oppone resistenza, e loro sparano musica a palla. Su Kalashnikov di Bregovic ho un momento di entusiasmo anch'io, ma poi sono stanca, mi stendo sul letto e il rumore mi sta uccidendo. La provvidenziale Serena mi trascina a cena in un posto poco distante ma decisamente silenzioso. Mi convinco che al mio rientro sarà tutto finito.

h.22.30: rientro a casa, illusioni infrante. Dalle musiche balcaniche si è passati alla samba. Gruppi di invasati ancheggianti bloccano le macchine, ormai autorizzate a passare, con degli stronzi trenini che mi auguro deraglino al più presto.

h.23.: sirtaki. La vecchia battona del civico accanto ballando si alza la gonna e non ha le mutande. Non aggiungo altro.

h.23.50: Techno. Sento il parquet che mi vibra sotto i piedi a ogni basso di Around the world e penso che le fondamenta del mio palazzo sono seicentesche e non resisteranno a tutti quegli unz unz. Provo a chiamare mia madre per dirle addio ma dice che non mi sente perché il rumore in sottofondo è troppo forte. Certo che è un bel contrappasso per una che non è mai voluta andare in discoteca, trovarsela praticamente in casa. Odio il mondo intero.

h.0.30 i dannati festaioli danno prova di non conoscere o non essere interessati a il teorema di Brigitte Bardot (quando in una festa si arriva a canzoni tipo Brigitte Bardot Bardot, AEIOU Ipsilon, Ymca, it's fun to stay at the ymca o Brazil lallalalalalalala, è ora di chiudere i battenti perché si sta davvero degenerando).

Si accettano scommesse su cosa farò se non la smettono entro mezz'ora.
Scendo con una spranga di acciaio? Pentolone d'olio bollente dalla finestra in stile medievale? Fucile a pallettoni? Sassaiola? Kalashnikov (non quello di Bregovic?). O peggio. Mi unisco anche io al nemico?

Come già ho accennato in altri post senza però spiegarne il motivo, tra febbraio e marzo dello scorso anno si è consumato uno dei momenti più drammatici della mia esistenza: ho chiuso i rapporti con Mario. Mario, il mio punto di riferimento, la mia colonna portante, il contrafforte marmoreo per ogni mia insicurezza, consigliere fidato e mano amica. Il mio stilosissimo (direbbe lui, causandomi un conato) parrucchiere in centro a Bologna.
Antefatto. Da Mario ero approdata dopo una serie di sciagure: la parrucchiera cinese che mi tagliava i capelli posizionandomi una scodella in testa e seguendone il bordo per non sbagliare, l'ossessivo-compulsivo che partiva con una spuntatina e mi trasformava in Nikita (ma perché non capiscono mai quando gli chiedi di tagliarti solo le doppie punte? possibile che nelle scuole per parrucchieri non insegnino a spuntare i capelli di un centrimetro ma minimo di mezzo metro?), Anita, la prorompente sessantenne che ha nella mia via un salone anni Cinquanta, con enormi caschi e carta da parati avorio, che tu ci metti piede e ti sembra di essere entrato in un romanzo di Richard Yates, la quale mi metteva enormi bigodini e cotonava i capelli come una sciura milanese.
Poi è arrivato Lui. Salone in pieno centro, due piani con ogni strumento di tortura possibile e immaginabile, sala d'attesa con poltrone soffici come nuvole e copie intonse di Vogue (qualcuno ha qualcosa da dire su Vogue?), una decina di schermi lcd sparsi in ogni ambiente con scene di sfilate e interviste a hairstylist famose, musica soffusa, atmosfera lounge, assistenti che ti massaggiano il cuoio capelluto con olii profumati.
E poi Lui. Lui, delizioso, nel suo total black Armani, che ti viene incontro sfarfalleggiando e urlandoti "caraaah ma sei un disastro, ma guarda che occhiaie, vieni qui che ora la mamma si prende cura di te!" con una voce così acuta che solo i pipistrelli riuscivano a captare le sue frequenze. Lui e il suo "come ti senti oggi, più Anna (Wintour, ndr) o Ilary (Blasi, ndr)?" (nel gergo degli hairstylist: con o senza frangia?). Lui e il suo "tutti stronzi questi maschi". Sempre Lui, più che un parrucchiere, che trasformando con una piroetta e una sforbiciata il capello lungo e bohemienne in un carrè sfilato e iperglossy (sento i maschi rabbrividire), mi ha lasciato intravedere il miraggio di una possibile risoluzione del rapporto più complesso che una donna si trova ad affrontare nella propria vita, quello con i propri capelli, lisci come spaghetti, ricci, di qualsiasi colore o lunghezza, sempre motivo di infinite nevrosi.
Cioè, voi pensate solo alla sottoscritta: capello tendenzialmente liscio senza particolari problemi, capace di tenere la piega, di un biondo scuro che tende a spostarsi sul color miele d'estate - e infatti domani ho intenzione di scurirli per sancire la fine della stagione. Il tipico capello senza infamia e senza lode, insomma. Eppure. In 15 anni avrò cambiato infiniti colori (varie sfumature di rosso, castano scuro, biondo chiarissimo, passando anche per look punk con ciocche blu e fuxia durante la fase della ribellione adolescenziale) e altrettanto infiniti tagli e acconciature, visto n-mila parrucchieri, comprato prodotti per capelli per una cifra impronunciabile e vergognosa, provato a arricciarli in tutti i modi conosciuti, a renderli ancora più lisci usando acidi, qualsiasi cosa pur di non metterli in piega, uscire nelle brume padane, e , dopo un secondo, vedermeli dritti in testa stile ultimo dei mohicani. Ma ancora non ero soddisfatta.

E qui ritorniamo a lui, Mario, che per tanto tempo mi ha soddisfatta e ha colto la mia esigenza di rinnovamento, per poi deludermi proprio il giorno in cui avevo un appuntamento con un tizio che mi piaceva parecchio. Appuntamento a cui l'adorabile Mario mi ha fatto arrivare come una Raffaella Carrà dei poveri, con tanto di caschetto bombato anni Ottanta.

Ragazze mie, so che potete capirmi. Cosa avrei dovuto fare, accogliere il fortunato con un turbante in testa o aprirgli la porta ballando il tuca tuca, distogliendo l'attenzione dall'obbrobrio n.1 (la scarcella che recavo in testa) per spostargliela sull'obbrobrio n.2 (me che ballo)?
E voi, omìni cari, complimentatevi spesso con le vostre donne per le loro acconciature, anche se non vi importa, anche se non ci credete, fate una buona azione.
E non obbligatele mai a indossare un casco per venire in moto. Mai.

Care amiche e amici, come fate voi a capire se una persona vi piace davvero? Scrivete su un pezzo di carta il vostro nome vicino al suo cognome e vedete se l'accoppiata suona bene? Cercate di capire a che livello di trituramento degli attributi può arrivare la vostra donna o siete di quelli più estemporanei, che affidano una scelta così importante alle farfalle nello stomaco?
Ebbene, io ho un metodo infallibile: penso ai figli.
Vale a dire, per capire se con quella persona ci può essere qualcosa di serio, devo:
1. riuscire a visualizzare l'immagine di me, lui, e la nostra famiglia -non meno di due pargoli- senza avere conati di vomito (questo dovrebbe rassicurarmi sul fatto che, almeno nel momento in cui formulo il pensiero, io reputi quella persona degna di trascorrerci l'esistenza);
2. riuscire a visualizzare i miei figli e trovarli di una bellezza disarmante (essendo figli miei) e di una intelligenza acuta (questo grazie all'apporto di lui), perché bisogna sempre migliorare la specie.

Solo superati questi test, per me ha senso continuare la relazione, altrimenti è una perdita di tempo. Ora, non è che io viva una storia solo in prospettiva di quello, nè per me l'uomo è un mero mezzo per riprodurmi sennò ne sceglierei uno a caso (non che sia facile, comunque) e la finirei lì: per quanto vi ami tutti, omìni miei, e vi trovi tutti stupendi, ci vuole quello giusto nel momento giusto, e se mai ci sarà, è bene che sappia da subito che, anche se di sfondo, il pensiero dei figli c'è stato, c'è e ci sarà, e si sostanzia non solo della condizione di mamma inside, ma del fatto che uno dei rapporti più appaganti che io abbia avuto in questi ultimi cinque anni, è quello con una folle cinquenne che porta il mio stesso nome e a cui oggi ho cercato di insegnare qualche frasetta in inglese col solo risultato, peraltro esilarante, di vederla trasformarsi sotto i miei occhi in una specie di Bruce Lee ("I want more" è diventato "I wanton" pron.aiuontòn, "How are you" - auaiù - con tanto di gesto da esperta karateka , dopodiché, ormai confusa anche sulla sua lingua madre, ha iniziato a chiamare il gatto "catto" e a piroettare su se stessa urlando "chan chan" anziché "ciao ciao").

Bene, passato il momento di tenerezza per Sunofyork jr (che pure, insieme al fratello maggiore di cui già parlai tempo fa, hanno dato un senso nuovo alla vita di questa famiglia), posso fare il mio pronunciaménto.

io, Sunofyork sr, nel pieno delle mie facoltà mentali (quelle che restano), in quanto madre in pectore, mi impegno solennemente a non: credere di meritarmi il nobel solo per aver partorito, non ritenere mio figlio/mia figlia di una intelligenza strabiliante rispetto agli altri bambini solo perché sa opporre il pollice all'indice, non rincoglionire la prole con cazzate tipo i teletubbies, non rincoglionirmi io stessa con cazzate tipo i teletubbies, non finire tutti gli omogeneizzati del pupo e i suoi biscotti plasmon, limitare al giusto le paroline puccipucci baubau, non farmi prendere dalla smania di coordinare gli abiti miei, del pargolo e del padre del pargolo, non confondergli le idee cercando di insegnargli la lingua inglese troppo presto, non viziarlo, non rivestire la casa di gommapiuma presa dall'ansia per gli spigoli vivi, non dimenticarmi di fare la ceretta solo perché ormai ho ottenuto quello che volevo, non accoppare la fidanzata/il fidanzato quando, quindicenne, la/lo porterà a casa.
Mi impegno invece a: raccontare storie finché non si addormenta, avere pazienza e abnegazione, dargli un senso della famiglia, ripararlo dai pericoli senza soffocarlo, portarlo a Rovaniemi alla città di Babbo Natale, fargli credere all'incanto delle fiabe più a lungo possibile.

No, in caso ve lo chiediate, non sono incinta e sì, mi rendo conto che con questo post erotico quanto una testata nei sacri gingilli, mi sto alienando ogni chance di trovare un uomo e di conseguenza avere dei figli, però quest'è, male che vada mi trasferisco in Spagna.

Bene bene, bambini miei, vi avviso che la mamma da lunedì prossimo sarà nervosetta, in quanto si inaugura un periodo di dieta che terminerà non prima del 24 dicembre 2009, quando, in occasione delle feste natalizie, mammina vostra vanificherà quattro mesi di sforzi si concederà una piccola tregua a base di pandoro e cotechino (insieme, inzuppati nel lardo di colonnata e spalmati di nutella), per poi ricominciare con il regime ipocalorico dal 6 gennaio 2010. Ora, tesorini adorati, direte voi: ma sei pazza? l'estate è appena finita, non potevi pensarci prima? Ebbene diletti pargoli, siete così ingenuotti che dubito possiate essere figli miei - ecco cosa risponderei io alla vostra tenera obiezione: non è che io sia in ritardo con la dieta, anzi, sono in anticipo. La dieta che comincerò lunedì è intesa per la prova bikini dell'estate 2o1o, ché siamo previdenti qui, ed è frutto di un complicatissimo calcolo

-5 Kg fino a dicembre, +3 Kg durante le vacanze di natale, +2 Kg nel post epifania grazie alle tremila calze della Befana regalatemi da mia nonna sosia-di-Gianni-Morandi che durano fino a metà febbraio, -3 Kg tra tonsillite marzolina, asma allergica e stress post traumatico dovuto alla lunga permanenza in famiglia, +3 Kg, dovuti all'ottimistico vabè tanto ho perso tre chili, non manderò mica tutto in vacca solo per un altro spritz!

che, come potrete facilmente constatare, mi porterà a giugno prossimo, con mio sommo disappunto, ad essere esattamente indentica ad ora solo molto molto più esaurita di così, ma almeno mi eviterà di mettere su peso. E quindi. La dieta che seguirò si basa su un moderatissimo decalogo:

1. i carboidrati e la frittura sono il Male;
2. carne, pesce e verdure sono il Bene assoluto e fanno sentire subito più leggeri te e il tuo portafogli;
3. bere due litri d'acqua (ricordarsi: acqua, non vodka liscia) al giorno è indispensabile;
4. la dieta è dolore, diffidare da chi promette soluzioni miracolose e immediate;
5. non dimenticare l'attività fisica. Spostare il cartone della pizza dalle ginocchia, alzarsi dal divano e andare a prendersi una birra in frigo non è uno sport (sennò sarei campionessa olimpica), così come andare a correre non significa andare ai Giardini Margherita, seguire per 100 metri il figo di turno che si allena, poi stravaccarsi su una panchina in preda a un enfisema e fumarsi due Camel di seguito con l'amichetta;
6. quelli che dicono che bisogna mangiare poco di tutto vanno abbattuti a suon di carote crude in testa perché non sanno cosa vuol dire avere un metabolismo letargico insieme a quelli (amico K. parlo con te) che si disperano perché non riescono ad ingrassare;
7. anche se su Cosmopolitan dicono che col sesso si bruciano un bel po' di calorie, e anche se hai un uomo particolarmente resistente, non c'è notte di passione che tenga se ceni ogni sera a base di salama da sugo e gnocco fritto. E poi, se c'hai uno straccio d'uomo, ed è pure resistente, ma che te frega di metterti a dieta, ormai l'allocco l'hai impalmato;
8. usa tutte le energie mentali di cui disponi per convincerti che la crema di riso muller (per chi sa di che parlo: ma quanti uomini ci vogliono per farne un vasetto?) è un sublime dessert;
9. in caso non ci sia alcuna perdita di peso, vai pure nei camerini di H&M ed illuditi del contrario;
10. la cioccolata non fa ingrassare un paio di palle.

E con questo è tutto. Se qualcuno con poco fiato e molta forza d'animo da settembre si dovesse trovare a Bologna e avesse voglia di andare a correre tre volte alla settimana, non ha che da dirmelo. Una Camel non si nega a nessuno.

Lo sapete, non faccio mai recensioni letterarie. Se un libro non lo amo, perché parlarne, se invece lo amo, chi sono io per parlarne.
Oggi però è diverso. Oggi sono qui a scrivervi non tanto di un libro (Albinati&Timi, Tutt'al più muoio, Fandango libri), che pure ho amato al punto di scegliere di rimanere sul bagnasciuga a ridere da sola, nascondere le lacrime dietro enormi occhiali da sole e beccarmi un'ustione alla clavicola piuttosto che staccare gli occhi dalla pagina e cercarmi un posto all'ombra, quanto a raccontarvi del mio innamoramento repentino, viscerale e totalizzante per Filippo Timi, attore teatrale e cinematografico di raro talento e intensità, scrittore sensibile, o forse molto più semplicemente uomo dotato di un'anima bella e dirompente, in grado di saltar fuori dalle righe stampate come dalla macchina da presa e prendere a cazzotti nei denti te e la tua spocchia intellettualoide per tutte le volte che hai blaterato che il cinema, il teatro e la letteratura italiana sono in totale decandenza, che siamo una realtà culturale massificata e di provincia (lo siamo, ma con le dovute eccezioni) e che niente di buono può venir fuori da questa landa piagata da puritanesimo di facciata e scarsa umanità.
Avete presente quando si ha qualcosa sotto gli occhi ma non la si vede per nulla al mondo? Quando si condivide lo stesso identico spazio -fisico o mentale- con qualcuno ma non ci si riesce a trovare e a prendersi le mani? Bene, per me con Filippo Timi è avvenuto così. Il solito, adorato K. mi ha regalato più di un anno fa questa autobiografia romanzata per il mio compleanno. Non l'ho nemmeno aperta, inconsciamente tenendola da parte e coccolandola in attesa di un momento più adatto. Poi, l'opinione entusiasta di un'amica, i commenti della rete, l'amico Cremino che mi illumina il collegamento -Timi, per l'appunto- tra il romanzo e due gran bei film italiani, Come dio comanda di Salvatores e Vincere di Marco Bellocchio, l'arrivo di un periodo un po' così, perché è mia ferma convinzione che è solo nei periodi un po' così, quando carne e nervi sono più esposti agli agenti atmosferici, che si possa apprezzare a pieno la poesia lieve e l'ironia dolente di una narrazione di questo tipo. E insomma, finalmente mi decido ad aprire il libro, lo divoro nei pochi giorni salentini, rido con Filo delle piccole sciagure della provincia e mi commuovo con lui per quella umanità irreperibile altrove, per gli stessi amori giovanili portati avanti per tutta la vita. E mi decido a parlarne con voi, in un qualcosa che non vuole essere per nulla al mondo una recensione ma solo un suggerimento per chi come me si fosse perso questa perla (di libro e di uomo), e una condivisione di entusiasmo per chi invece già lo conoscesse, e per farlo, fa appello a tutto il buono della rete: curiosità, efficacia del passaparola, comunanza di interessi, vicinanza virtuale e non, capacità di contagio, puro e semplice buon senso.
Poi, il fatto che invierò stasera stessa il link di questo mio post a Filippo Timi e gli farò palese la mia intenzione di sposarlo e fare dei figli con lui, è secondario. Però capitemi (e tu, Filippo, capiscimi): il ragazzo pare sensibile, recita da dio e scrive altrettanto bene - per una che vuole fare l'editore, ciò basta e avanza a far comparire il simbolo $ al posto delle pupille in stile Paperon de Paperoni - è bono come il pane e c'ha pure la barba, il che titilla amabilmente il mio complesso di Elettra.
Insomma, Filippo, siamo una coppia perfetta.
Ci pensi tu a mandare le partecipazioni?

La colazione bolognese è un rito che si ripete ogni mattina uguale a se stesso: un tè bollente sorseggiato con calma, in silenzio, una fetta biscottata, e nient'altro. Non ci sono eccezioni: la valenza consolatoria della tazza di twinings breakfast fumante, nelle mattine di gennaio quando uscire dal piumone tiepido è uno strazio insopportabile, non ha rivali, ed è un piacere che solo chi beve tè ogni santo giorno da troppi anni può comprendere a pieno.
Badate bene, nell'arco della giornata berrò altri tre o quattro tè - a proposito, se qualcuno si trovasse a volersi sbarazzare di un bollitore mod. Hot Bertaa disegnato per Alessi da Philip Starck e non sapesse a chi regalarlo, sappiate che è uno dei miei desideri per il 2009 - ma nessuno è uguale al tè che bevo a colazione: quei cinque minuti di sospensione del giudizio, in cui non si indossa ancora la maschera sociale e i pensieri continuano a concatenarsi secondo le logiche del sogno, logiche altre e più fumose di quelle che scandiscono le restanti ore, hanno il sapore inconfondibile del piccolo lusso quotidiano.
Un lusso che apprezzavo sin da ragazzina, quando, in campeggio con i miei genitori, i loro migliori amici e i loro due figli, (uno dei quali tutti immaginavano sarebbe diventato il mio fidanzato e poi mio marito) sgattaiolavo dal bungalow alle sei di mattina in contemporanea con questo altissimo adolescente per cui avevo una cotta - ricambiata, ma eravamo troppo impauriti anche solo per tenerci la mano - rubavamo le Macine dalla credenza, e andavamo a sgranocchiarle in silenzio su una duna di fronte al mare, io, pensando al perché quel bellissimo inconcludente non si decidesse a baciarmi, lui, con quello sguardo un po' così, probabilmente non pensava a niente, aveva semplicemente il vuoto pneumatico nel cervello. Non successe niente, ma a settembre, tornati a scuola, il peso di ciò che sarebbe potuto essere, l'imbarazzo di quei momenti di intimità condivisi, spinsero il ragazzo a smetterla di salutarmi e a far finta di non conoscermi.

Ma ora è agosto, e io sono a Bari dai miei. Il che vuol dire fronteggiare colazioni minimo in quattro, massimo in dieci, discussioni politiche mattutine, bambini urlanti che esigono pane e marmellata e spargono cereali per terra al mio passaggio come fossero petali di rosa, e una angosciante assenza di tè twinings. Vuol dire svegliarsi la mattina prima di tutti, sgattaiolare in cucina, aprire gli scuri per far entrare l'aria di mare guardando il pepe selvatico che ormai ha raggiunto il balcone del primo piano e ricordarsi di quando era poco più di un cespuglio, poi avvertire un'ombra ghignante alle spalle, voltarsi, imbattersi in mio padre Dennis Hopper in modalità rompicoglioni.
Dovete sapere che mio padre ha un talento tutto particolare nel risultare sempre inopportuno. Questa sua dote si esplica in particolare di mattina in maniera polimorfica, ma con il solo obiettivo di irritarmi, causandomi un antiestetico tic al sopracciglio. La top five dell'odio mattutino in particolare prevede che lui:
1) storpi i nomi di amici e conoscenti, per cui Valentina diventa Tatiana, Teodora diventa Dorotea, Pino - Gino e così via;
2) canticchi la canzone L'estate sta finendo (lo faceva anche al liceo, e io piangevo alla sola idea di tornare a farmi venire la scoliosi sul Rocci);
3) esprima opinioni non richieste sulla mia situazione sentimentale;
4) mi chieda di fargli una fetta biscottata con la marmellata;
5) si rifaccia da sè la fetta biscottata perché la mia non è precisa e la marmellata non è stesa in maniera uniforme e comunque come le fai lui le cose, nessuno.

Ho il sospetto che per mio padre il piccolo lusso quotidiano di cui parlavo prima consista esattamente in questo: infliggere una tortura psicologica alla sua primogenita.
Comunque domani parto per qualche giorno: una tenda, il mare, due tre libri, gli alberi, poche persone care che sanno apprezzare la bellezza delle colazioni in silenzio.
A distanza di quindici anni da quel campeggio coi miei genitori, tornerò a bagnarmi nelle stesse acque, a calcare le stesse dune, ad arrovellarmi su un altro bellissimo uomo indeciso. Ad occhio e croce sarà meglio non fare previsioni sentimentali basate sulle vicende del passato.
Tra l'altro ora il prezzo delle Macine si è praticamente triplicato e in più seguo una dieta priva di carboidrati.
Che meraviglia il tempo che scorre.

Buone vacanze a tutti miei adorati, vi voglio bene!

[...]Mi fece accomodare sul letto e mi portò delle fette di cocomero che mangiammo assetati. Io sputai i semi, lei no. Poi facemmo l'amore. (P.A. Jarvis)

Sono passati cinque mesi ma ricordo bene che stavo traducendo questa frase, tutta intenta a non tradire le intenzioni di chi l'aveva scritta e me l'aveva consegnata con enorme fiducia. Guardai l'ora sul pc: le 16.15. Erano i primi di marzo e fuori faceva ancora freddo. Mi fermai un attimo a riflettere su quei giorni strani e pieni di scossoni. Pensai che era una fregatura che proprio in quel momento non ci fosse D., la mia amata coinquilina, lì a Bologna con me e che avremmo preso il tè delle cinque insieme, ridendo di come avessi scombussolato la mia vita nel giro di una settimana. L'altra coinquilina, l'Afflitta, aveva passato la nottata precedente a singhiozzare davanti al pc ed era anche lei fuori di casa, ma comunque per definizione non sarebbe stata di grande aiuto. Poi una voce, debole, sempre più debole, che chiamava il mio nome mi scosse dai miei pensieri. Dentro di me sapevo che era successo qualcosa ma il cervello si rifiutava di prestare ascolto a quella voce dal corridoio. Mi ritrovai in piedi in cucina, immobile, la voce non c'era più; fui tentata di ignorare quell'incubo e ritornare alla mia traduzione, di non andare a vedere, occhio non vede cuore non duole, perché mai andare ad aprire quella porta se il film si chiama "Non aprite quella porta" e cose così. Però non potevo. Mi affaccio al corridoio e vedo esattamente quello che non avrei mai voluto vedere ma sapevo che avrei visto: l'Afflitta riversa a terra tra la porta del bagno e il corridoio, braccia e gambe piegate come non dovrebbero mai essere piegate, in un modo che mi fa pensare a una svastica. Corro per il corridoio, ho il cuore che mi è saltato in gola e lo sento distintamente pulsarmi nelle orecchie. Mi avvicino, le tasto il polso, niente, non c'è, cazzo F. che cos'hai fatto, cerco di girarla, di metterla su un fianco, non so perché ma so che è così che bisogna fare, e girandola la guardo in faccia. Il rosario le penzola dal collo come al solito, le palpebre semiaperte rivelano gli occhi rovesciati all'indietro, il colorito grigio e innaturale che la siccità conferisce alle terre delle mie parti, le labbra spaccate e bluastre. E' morta - mi dico - andata. Non respira, e manco io sto respirando, ho la gola stretta in una morsa, passa a stento un filo d'aria. Cazzo, F. perché mi hai fatto questo, perché proprio qui e non da qualche altra parte. E' assurdo ed egoistico, ma l'aria non mi arriva al cervello e sento che sto solo posticipando un attacco di panico di quelli epocali. La prima persona a cui penso è la Knox, penso a Vespa che sguazza nel tracciare l'identikit del giovane killer, penso a un revival delle teorie di Lombroso: Amanda Knox, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi, Sunofyork. Tutti giovani, tutti biondicci e dall'aspetto angelico. Poi la razionalità nella follia: D. Mi avrebbe tirato fuori lei dai guai. Lei e tutti quelli che conoscono me e F. possono testimoniare che era depressa, che erano mesi che dava segni di squilibrio e forte depressione, che avevamo fatto qualsiasi cosa per aiutarla. Ok, forse me la cavo. Mentre faccio questi pensieri, le sono inginocchiata accanto e mi è venuta una forza fisica prima sconosciuta: giro ancora F. come fosse una bambola di pezza, le alzo le gambe, e a un certo punto lei tossisce. Cerco di rimetterla su un fianco in caso dovesse rimettere, inizia ad avere delle convulsioni e vomita, F. che cosa cazzo hai preso, ti prego dimmelo, poi riperde conoscenza. Ma è viva. E' viva e io devo fare qualcosa, vado in cucina, ho solo del Dietor, porca miseria, mi ricordo che D. aveva conservato in caso di cali di pressione due bustine di zucchero di canna prese da un bar in cui avevamo fatto colazione la settimana prima. Nel frattempo sto avendo un infarto e contemporaneamente annego in un liquido vischioso, vorrei solo scappare, poco ma sicuro, ma trovo le bustine, ci faccio due tazze di acqua e zucchero enormi, una per me e e una per lei, una la bevo subito rovesciandomela praticamente tutta addosso per quanto mi tremano le mani, mi affretto per il corridoio ripetendo ossessivamente tra me e a me qualcuno mi aiuti qualcuno mi aiuti qualcuno mi aiuti, per tirarmi su nel frattempo mi bevo anche l'acqua e zucchero per F. che ancora non riesco a far riprendere, corro giù scalza per le scale di casa, citofono al piano di sotto e di tutta risposta ho un "chiama il 118", torno su, effettivamente chiamo il 118. F. ora ha aperto gli occhi ma non riesce a parlare, sembra lontana, oltre una lastra di vetro. Le dico stai tranquilla, arriva l'autoambulanza, non ti muovere di qui io mi allontano un attimo. Vado in camera, non riesco più a reprimere l'attacco di panico, non riesco a star ferma, so che devo fare: chiamare mia madre. "Mamma parlami", non sono in grado di spiegarle cosa sta succedendo perché qualcosa mi strozza, non riesco nemmeno a piangere. Mia madre capisce, inizia a raccontarmi la sua giornata mentre io mi soffermo solo sulla respirazione. Posso guardarmi riflessa nello specchio della parete di fronte, sdraiata sul letto con le gambe alzate sul muro, le braccia spalancate, i capillari scoppiati per lo sbalzo di pressione che conferiscono alle palpebre un colore violaceo.
Ed è in questo stato che mi trova il ragazzino lentigginoso del 118 quando entra in casa, trovando la porta d'ingresso aperta. E' alto un metro e una lenticchia e peserà attorno ai 50 kg. Mi squadra atterrito. Nel palazzo non c'è l'ascensore.
No, tranquillo, non è me che devi portare in braccio giù per le scale.
(Stava per avere un attacco di panico pure lui, secondo me)

Solo molte ore dopo, con F. ormai in reparto e sotto controllo, in un asettico bagno d'ospedale piastrellato di bianco, riesco ad abbandonarmi a un pianto disperato.
F. ora sta bene, o almeno meglio. Abbiamo quasi superato l'episodio. Le ho imposto di usare un nome in codice se deve chiamarmi per motivi non gravi in modo da risparmiarmi infarti inutili. E, ovviamente, ho imparato che devo sempre avere lo zucchero in casa.

Carissimi, scusate la latitanza, sono una donna di mondo, ho da tradurre fumetti hard e spalmarmi creme all'aloe sugli eritemi procuratimi durante il mio breve soggiorno siciliano, unica prova schiacciante -insieme a una invidiatissima ustione delle rotule- della mia permanenza su un bagnasciuga. Ma sappiate che vi ho pensati molto, e ho speso ore e ore delle mie giornate nel tentativo di scattare una foto giusta per questo post, con la mia paglietta in primo piano e lo sfondo sfocato, proposito a cui ho rinunciato dopo aver capito che le macchinette compatte hanno il fuoco unico, ma tant'è.
Come già avevo accennato in un post ormonale che più de così ce stanno solo le caldane de la menopausa, l'amico K. e altri della sua specie, hanno vinto questo Innovation Award, per via di alcuni progetti (pare) rivoluzionari&strabilianti, premio costituito da un meraviglioso fermacarte in vetroresina di forma fallica consegnato da una splendida signorina milanese (la "Innovation Award Winner" Prize Giver, come l'abbiamo sinteticamente soprannominata io e K. verificando, tra grasse risate, l'incredibile capacità di composizione della lingua inglese), più una vacanza interamente spesata in un albergo extralusso di Taormina per due persone, laddove per "extralusso" intendo un posto da petrolieri russi senza scrupoli, imprenditori rampanti, giraffute modelle slave, mandanti di omicidi -anche se Krapp obietterebbe che ordinare un omicidio ti dà direttamente accesso alla Costa Smeralda o l'isola di Saint Barth, mentre a Taormina magari c'è solo qualcuno che ha licenziato molta gente (non che cambi molto, comunque) - e coppie ricche che non vogliono avere bambini tra le scatole (e infatti ce ne sono pochissimi, perché dopo un metro dalla riva l'acqua diventa profondissima, e i ciottoli roventi ustionerebbero le tenere carni di un cinquenne nell'atto di trotterellare con secchiello e paletta). Insomma: posto sin troppo d'alta classe per due abituati ai peggiori ostelli del mondo (provate Zagabria, poi ne parliamo), mare cristallino, pesce spada fresco a ogni ora, una schiera di gente pronta a soddisfare tutti i nostri desideri (in realtà solo uno, alcol, più possibile, in quantità industriali), e un più che probabile coma glicemico da cassata e cannuoli. Insomma, i presupposti per una vacanza spettacolare c'erano tutti.
Partiamo dal fatto che io e l'amico K. non si sia in realtà partiti in due ma in quattro, cioè io, K., e le rispettive ossessioni sentimentali della collezione primavera-estate 2009 che in absentia/praesentia si sono imbarcate con noi a Fiumicino e non hanno mancato di allietare da lontano ogni singolo momento della nostra vacanziella (chissà quanto saranno fischiate le orecchie a quei due poveretti) . Il che vuol dire situazioni del tipo:
[mattina, camera d'albergo, letto a 4 piazze e finestra spalancata che dà su terrazza che dà a sua volta sul mare]
Io e K. apriamo gli occhi, siamo alle estremità opposte, due puntolini troppo piccoli per riuscire a vederci, però sappiamo bene dove siamo, chi siamo e perché siamo lì. All'unisono:
"Ma perché cazzo ci sei tu qui e non Lui/Lei, eh?".

O anche:
Colazione infinita a base di granite, briosche, latte di mandorla. K., afflitto temporaneamente da una tenia, azzarda anche miele, ricotta, salsiccia e affettati. Barcollando satolli come otri verso la spiaggia, dove verremo condotti a spalla da un bagnino ai nostri lettini su cui verrà gentilmente adagiato un morbidissimo telo Ralph Lauren, ci fermiamo un attimo a osservare incantati lo spettacolo del sole non ancora alto, che batte obliquo sull'acqua immobile e sui ciottoli colorati.
Krapp, l'innamorato patologico:
"Ah, quanto sarebbe piaciuto questo posto a Lei, così abile a mordere la bellezza del mondo".
Sun, poetessa-mode on:
"Per quanta dolcezza abbia da offrire il regno di Trinacria, mai ritroverò il miele della sua voce".

Tutto ciò mentre gli altri partecipanti al viaggio-premio, convinti di trovare in me e K. una giovane coppia di sposini, sentendoci discutere continuamente di una lei e di un lui non in loco, ci guardano perplessi e iniziano a interrogarsi su un possibile menage à quatre. E deve sembrare una soluzione abbastanza appetibile, alle coppie di quasi quarantenni lì con noi, che ci vedono tutto il giorno in spiaggia che ridiamo e scherziamo delle nostre piccole tragedie amorose con la complicità di chi negli anni si è costruito un rapporto che naviga su un canale preferenziale. Cosa che a molti di loro, probabilmente, non è riuscito di fare, condannati come sono a dimenarsi frustrati e pieni di disperazione in una sorta di tonnara. Il che, a me e K., un po' ci inquieta, un po' ci fa apprezzare quello che abbiamo per le mani, anche se lontano e problematico, ma soprattutto ci fa sospirare per lo scampato pericolo.

(K. comunque se a 60 anni siamo ancora entrambi single e mi vuoi sposare, sappi che non opporrò resistenza)

Il bello di essere attorno ai 30 è che il range anagrafico degli uomini ipoteticamente papabili per una relazione si dilata enormemente. Non si è ancora così adulte da non poter frequentare un 20enne senza ingenerare imbarazzanti fraintendimenti (cosa prende da bere suo figlio, signora?) nè così giovani da dover considerare un ultracinquantenne come un padre e quindi fuori dal prorpio target, ma allo stesso tempo si mantiene quell'allure lolitesca che tanto aggrada gli uomini di mezza età. Quindi, si diceva: 20-55. Inebriante solo a pensarci. Volete che uno decente non riusciate a trovarlo all'interno di più di un trentennio?
Eppure. Come sapete, tutti gli uomini sono un po' catorci dentro: macchine imperfette, malfunzionanti, talvolta deludenti e comunque mai rispondenti alle nostre aspettative. Solo che ogni decade maschile ha peculiarità e cause diverse che giustificano l'essere catorcio dei suoi membri. Prendiamo ora la decade tra i 50 e i 60 - la mezza età spinta, quella che rischia talvolta di sembrare patetica - e vediamo una situazione tipo esemplificata dalla figura di mio padre, il signor S., che in crisi di mezza età c'era già prima che io nascessi, ma tant'è, è l'unico ultracinquantenne che per ora frequento. (So che molte di voi mie coetanee penseranno che il mio limite superiore è un po' troppo flessibile, leggermente spostato verso la gerontofilia, però vi assicuro che per alcuni versi, per noi donne infelici e infelicitanti la mezza età è la nuova frontiera).
Dunque, cos'è che rende catorci i 50enni? Vite già abbondantemente scritte e spesso andate alla deriva, i figli ormai cresciuti che non hanno più bisogno di loro, la sensazione che niente di buono possa più venire, il bisogno di attaccarsi all'ultimo barlume di giovinezza, insomma, ce n'è per tutti i gusti. Ma veniamo al signor S.

Se mi chiedessero di definire mio padre, non avrei dubbi: timido ai limiti dell'autismo, di un perfezionismo sconfinante nello spaccamaroni, dotato di una sensibilità da puerpera e tanto fedele alla sua azienda (Trenitalia, ah ah) da prendere sul personale le critiche agli oggettivi disservizi delle Ferrovie dello Stato.
Insomma, non il tipo uomo da cui ti aspetteresti dei colpi di testa.
Venerdì pomeriggio, fuori il diluvio. Io e il grafico tentiamo di arginare l'allagamento dell'ufficio inserendo sotto la porta-finestra i libri peggiori della casa editrice. Squilla il telefono, mio padre dal suo ufficio. Rispondo (in barese per non far capire al grafico).

Sun: Pà ma c vuè mò (padre, cosa ti spinge a chiamarmi a quest'ora inusitata)?
Padre di Sun (festante): Cara, adorata, diletta figliola, ho un annuncio importante da farti e ti pregherei di utilizzare l'idioma italico per l'occasione, visto che è per quello che io e tua madre abbiamo speso migliaia di euro nella tua formazione.
Sun: mèn dì, che teng c fà mic com a tte che stè a giocà co' u' ciuff ciuff (ordunque, parla, ché il dovere mi chiama, a differenza di qualcun'altro che sta sulla sua sedia Stokke a ridere delle disgrazie dei pendolari)
P.di Sun: ti capisco, sangue del mio sangue, devi tradurre fumetti che andranno presto a impilarsi nei cessi degli italiani favorendone la defecazione. Voglio che tu sappia che sono tanto, tanto fiero di te e dell'ottimo lavoro che fai, so che cambierai la cultura italiana, anzi no, internazionale, ma che dico, mond...
Sun: vid c t muv, pà (ti sollecito ancora una volta a parlare, padre)
P.di Sun: mi sono comprato una Kawasaki. Meravigliosa, cromata, potentissima.
Sun (cattiva): ah quindi nemmeno tu vuoi viaggiare più con Trenitalia, eh?
P.di Sun (ignorando deliberatamente): porterò tua madre al mare, ci faremo tutta la costa dal Salento al Gargano, e poi di lì giù verso la Calabria. Sarà come tornare ventenni.
Sun: Tranqui', non sì tu, iè la mezz età (ti giustifico, caro padre, solo perché non sei tu a parlare ma la tua crisi di mezza età).
P.di Sun: vedremo.
Clic.

Le ultime notizie danno il signor S. intento a lucidare senza sosta la sua Kawasaki modello "Rimorchio" prima di utilizzarla, con un rombo che scuoterà l'intero quartiere dalle fondamenta, per fare il remake di Easy rider sul tragitto di 500 metri da casa al Conad, tragitto dopo il quale tornerà a casa stravolto e convinto di vendere la Kawasaki, uscendo a quel punto da questa infantile crisi di mezza età ed addentrandosi finalmente nella senescenza.
E lì il mio span anagrafico non arriva. E il vostro è più elastico?
(se la risposta è sì, buon per voi, basta che lasciate stare mio padre - è quel tipo barbuto che guida una grossa moto con gli occhi sgranati per il terrore)

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