Yes, darling. Life sucks

Learning how to cope since 1982

Al mondo, ci sono almeno due Massimo Vitali. Uno è un fotografo famoso con la fissa per le spiagge, l'altro è amico mio. Al mondo, però, di Massimo Vitali in grado di fare frittate che sembrano frisbee, di obbligarti a salire in moto, di sorridere contagioso, di entusiasmarsi per Fausto Leali, di minacciare uno striptease prima di cena e di scrivere libri come L'amore non si dice, ce n'è solo uno ed è il secondo, e questa blogger qui, oggi, è un po' commossa all'idea di essere stata presente alla gestazione di questo libro.
L'amore non si dice, in uscita oggi per Fernandel, con prefazione di Alessandro Bergonzoni e postfazione di Grazia Verasani, è una raccolta di lettere d'amore che non parlano d'amore, perché Teresa, la donna a cui sono indirizzate, stufa di tanta melassa e dotata di un cuore di pietra, ha chiesto al mittente di parlarle di tutto, fuorché d'amore.
E quindi il povero Edoardo si ingegna come può, mette su un epistolario in absentia, accetta il silenzio di lei, e le scrive di ricette, di alberi, del lavoro, di Dio e persino di Elvis, pur di non dirle quelle due parole. Che però fanno capolino tra quelle carte da decifrare senza mai essere dichiarate, ora giocose e opalescenti come bolle di sapone, ora decisamente più malinconiche, quando il profilo dell'amata diventa labile e la mancanza si fa sentire.
Ma Edoardo non è uno che si scoraggia facilmente: come un Werther sgangherato, continua a scrivere le sue lettere una dopo l'altra, e a te non resta che biasimare Teresa per la sua scarsa lungimiranza e la sua incapacità di corrispondere sentimenti tanto delicati, mentre nel frattempo quelle parole che rimbalzano leggere contro un muro arrivano dritte dritte a sollevarti gli angoli del sorriso.
Un libro non dissimile dal suo autore, buffo e strampalato ma con una vena di sensibilità profonda, capace di regalarti una leggerezza sghemba che racconta di volumetti di Calvino, Queneau, Vian e Rodari recuperati in punta di piedi dalle mensole alte, di canzoni di Capossela e Conte e Dalla ascoltate sul divano, e che consiglierei a tutte le donne che non credono più al romanticismo maschile, ma anche a tutti gli uomini che non sanno trovare le parole giuste per conquistare una donna.
Basterà una di queste lettere a garantirvi il successo con la vostra lei.
(A patto che la vostra lei non sia Teresa.)

Allora, io ho capito una cosa: a un certo punto, nella vita adulta, è inutile che io neghi che nella mia persona c'è -perché c'è- un tasso variabile di pazzia e che questa variabile resti al di sotto dei livelli di guardia nella maggior parte dell'arco del mese, e che invece tenda a creare degli asintoti 1. nei giorni di sindrome premestruale o 2. nei momenti di maggiore stress psicoaffettivolavorativo (il che, a pensarci bene, nega quanto detto prima, essendo i momenti di maggiore stress psicoaffettivolavorativo una costante per almeno 25 giorni al mese - come può essere una costante un concetto non assoluto come "maggiore di"? Quello che è costante, è la certezza che ogni giorno sarà peggiore del primo, quanto a stress, non il tasso stesso di stress, cari gigioni miei), raggiungendo soglie ben oltre il catastrofico quanto i punti uno e due avvengono nello stesso istante.
Ora, l'unico modo per disinnescarmi, in quei momenti lì, è: o procurarmi molto dolore fisico (come ho fatto nello scorso weekend al concerto de Il teatro degli orrori con l'amico K. e la Divara -in questo senso 10 euro molto ben spesi- e gettandomi con quest'ultima in zona rossa tra omoni ubriachi che pogavano tutti sudati, assestandoti gomitate nelle costole, spintoni e quant'altro - quindi, cara Divara, ti ringrazio per aver condiviso con me quel momento catartico) oppure farmi piangere. Il bello è che l'unica che riesce a farmi piangere disperatamente (sì, ok, amico K., una volta ci sei riuscito anche tu mentre eravamo al ristorante cinese e mi hai detto che dopo le ultime relazioni, mi ero svalutata come donna, ma non conta, perché non avevi la consapevolezza dell'orrore di ciò che stavi dicendo) sono io stessa.
E quindi vi dico senza vergogna (sento già le sirene della neuro, non fa niente): ma lo fate anche voi il giochino di pensare a qualcosa che vi faccia piangere e addormentarvi per sfinimento col cuscino bagnato, la sera, quando siete a letto? E a cosa pensate?
Io ve lo racconto anche se so che c'è qualcuno che mi deriderà. Negli ultimi mesi ho un ricordo che mi strazia, soprattutto perché mentre sono sotto al piumone, al buio, caldo, lo associo a questa canzone, ed è questo ricordo:
Dicembre 2009 - visita natalizia all'Ikea con i miei cugini. Lui 6 anni, acuto, riflessivo (ascoltando il Claire de lune di Debussy, un paio d'anni fa, esclamò malinconico "ma perché le cose tristi sono anche le più belle?", togliendo ogni dubbio sull'appartenenza a un certo ramo depresso-contemplativo della mia famiglia), allo stesso tempo ironico, solitario, responsabile (pure troppo), lei 4, esplosiva, socievole, iperattiva, rumorosa, distratta (pure troppo). Lei corre allo Smaland, lui non ci vorrebbe andare ma non lo dice perché si vergogna della propria timidezza, quindi per un po' gironzola circospetto prima di entrare, poi un ultimo sguardo, ed entra. Alto e lungo come un fuso, con la pelle bianca, i capelli e gli occhi nerissimi. Sua sorella, biondina con la guance rubizze di Heidi, sta già prendendo a calci gli altri bambini e si esibisce in sgangheratissimi carpiati nelle palline di gommapiuma.
Ed è allora che lui si avvicina con gli occhi giganteschi e liquidi alla vetrata che divide la zona bambini dall'esterno. Per gioco, qualche giorno prima, gli abbiamo insegnato l'alfabeto muto e gli è piaciuto tantissimo, allora gli dico a gesti: torniamo tra mezz'ora, non piangere.
E lui da dentro ricaccia indietro le lacrime, e con le sue mani da pianista, velocissimo, ci dice: non ti preoccupare, non le faccio mettere la testa sotto le palline di gommapiuma.

Scusate, annego.
Io non lo so mica se ce la farò, senza psicofarmaci, a mandare i miei figli all'asilo.

12.3.10

Baciami ancora

Posted by SunOfYork |

pensa a quando sarai un benpensante pantofolaro del cazzo

Ve la ricordate questa frase? La pronuncia uno dei quattro protagonisti de L'ultimo bacio per convincere Pier Francesco Favino che sta per sposarsi a fare bungee jumping.
Bene. Sono passati 10 anni. Favino è diventato proprio un benpensante pantofolaro del cazzo, l'unica cosa su cui nel film precedente ci avevano beccato, e gli altri sono una galleria di macchiette quaratenni in grado di chiarirti una volta per tutte il significato dell'espressione "persona triste": il
separato indeciso (Accorsi), l'ex galetto che vuole recuperare un rapporto con suo figlio -ma per me, con quei capelli lì, non si merita nulla- (Pasotti), il freakkettone troppo cresciuto (Cocci), il depresso depresso (Santamaria), l'isterica -e vabè, questo le vien bene, concediamoglielo- (Impacciatore) e la povera crista che si ripiglia l'ex marito nonostante tutto (la bellissima Puccini).
Ora, io avevo già trovato particolarmente irritante che qualcuno avesse la presunzione di poter rappresentare un'intera generazione, quella dei trentenni, dipingendoli come incostanti problematici, incapaci di gestire la responsabilità del futuro e di apprezzare le fortune che hanno (e vabbè, ok, magari ce n'è qualcuno così, ma attorno a me vedo solo trentenni che arrancano sotto il peso di un lavoro sfibrante e malpagato e che sognano una stabilità familiare che non si possono permettere. E poi, ammesso pure che ci fosse rimasto un solo trentenne buono al mondo, ma perché di grazia, caro Muccino, lo devi convincere che tanto i suoi coetanei sono tutti inaffidabili e che è normale scoparsi la diciottenne e poi tornare dalla fidanzata perfetta che ti ripiglia? Ma per carità di dio, ma se ero io la Mezzogiorno, ma col cazzo che me lo ripigliavo il fedifrago, se lo poteva tenere stretto quel crocifisso, la Martina Stella, io mi tenevo la figlia e me ne stavo a casa mia col mio lavoro in attesa che arrivasse uno leggermente meno testa di cazzo).
E vabbè, comunque avevano trent'anni, erano giovani, glielo concediamo.
Ma ora ce ne hanno quaranta e sono più infognati di prima. Cioè, roba che se uno vuole illudersi che magari se tiene duro fino ai 35, poi supera un
limes da cui non si può tornare indietro e raggiunge, che ne so, la pace dei sensi, non può. perché c'è Muccino a dire no-no. Questi sono più immaturi di prima, sempre così tanto sopra le righe da risultare inverosimili, una fa la commessa ed abita a Roma in un appartamento stratosferico tutto arredato Kartell, non fanno che sbraitare, baciarsi, piangere, che ti verrebbe da dire a Muccino, oh cocco, ma guarda che la vita non è mica questa! La gente può essere meglio di così! E niente, questi si fanno del male a vicenda, si dicono cose orribili, poi si guardano negli occhi e si baciano. Ma non è un pochino semplicistico?
E parte la canzone di Jovanotti, che è da quando iniziò a fare il romantico lagnoso con Bella che mi fa rimpiangere i tempi cazzeggioni di Gimme five (all right), e che non posso far a meno di immaginare come un enorme gigione che se ne va in giro in bici e che viene visto da tutti come lo scemo del villaggio mentre lui si sente il filosofo zen di turno. E il caso vuole che la canzone incominci proprio con il verso "Un bellissimo spreco di tempo".
Proprio come vedersi questo film.

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