Yes, darling. Life sucks

Learning how to cope since 1982

23.2.10

Wu - Febbraio 2010

Posted by SunOfYork |


Non so come, non so perché, ma mi trovate su anche Wu Magazine (da oggi online il pdf, da domani in cartaceo), e per l'esattezza qui, che sproloquio di capitalizzazione del senso di colpa maschile e faccio quello che mi viene meglio al mondo, rendermi appetibile quanto una rettoscopia agli occhi di qualsiasi maschio sulla faccia della terra.

Però giuro che non rompo per andare da Ikea la domenica!

Da qualche parte ho sentito che ammettere di avere un problema è il primo passo per risolverlo. E io, cari miei, un problema bello grosso ce l'ho, e ho tutte le intenzioni di affrontarlo: trattasi dei miei pantaloni di flanella rosa a quadrettoni grigi.
Io per partito preso non ho mai usato i classici pigiami, e, credetemi, non perché dorma nuda con due gocce di Chanel n.5 dietro le orecchie, no, no, col cacchio, d'inverno dormo intabarrata in dei tutoni osceni raffiguranti cappuccetto rosso acquistati da mio padre con lo scopo preciso di rendermi inappetibile e antierotica persino per il più infoiato dei maschi, mentre d'estate sfoggio una mise ancora più deprimente composta da mutande e magliette lise di squadre di calcio sfigate (no, il Bari non è una squadra sfigata, inutile che lo scriviate nei commenti). Dunque, dicevo, non uso pigiami, e non perché l'essere seducente sia una mia istanza primaria, diciamo pure che me ne frego del tutto: se calcolate che fino a maggio dormo sepolta dal piumone da cui spunta solo un delicato piedino n.39 -per tutti gli uomini che hanno dormito, dormono e dormiranno con me: so che è un gesto carino e pieno d'affetto, ma non provate a ficcarmi il piede sotto il piumone perché lo uso come termostato in modo da regolare la temperatura corporea, e passi la prima volta che vi svegliate per andare in bagno, vedete la zampaccia che spunta, vi intenerite e me la coprite, passi la seconda, che ridacchiate, pensate che io sia una simpatica mattacchiona e me la coprite di nuovo, alla terza divento una bestia e vi ammazzo nel sonno. Se a questo aggiungete che porto dei calzettoni di lana fino al ginocchio che talvolta sono anche bucati, che tendo ad assumere nel letto la classica posizione "a quattro di bastoni" e che russo* -ebbene sì, càpita quando hai tonsillite cronicizzata, deviazione del setto, turbinati ingrossati e sospetti polipi nasali- capirete che non ho bisogno di sottovesti in chiffon nè per sentirmi donna (ne sono tristemente consapevole a prescindere) nè per sedurre un uomo (se ti vogliono, puoi metterti uno scafandro da palombaro, vai bene lo stesso).
Quindi qual è il mio problema con il pigiama? Il mio problema con il pigiama è più o meno quello che hanno i tossici con le droghe. Non lo posso usare troppo spesso perché mi proietta in una dimensione che amo sopra ogni cosa e da cui non vorrei mai uscire, cioè quella della sciattona malaticcia, e dal momento che le sciattone malatticce per definizione non sono produttive, mentre nella vita adulta ti è richiesto di produrre, so che se la mattina mi sveglio avendo il pigiama addosso le possibilità che io mi alzi dal letto e mi metta a lavorare sono pari a quelle che un uomo, dopo aver letto il capoverso precedente, mi inviti a uscire: nulle.
Cerco, quindi, di regolamentare l'uso del pigiama limitandolo ai pochi momenti della mia vita in cui non mi viene richiesto di produrre alcunché nè di rendermi presentabile per nessuno, vale a dire all'incirca una domenica al mese. E quindi in quell'occasione indosso i miei pantaloni di flanella e ciondolo per casa molle come un budino, sorseggio tisane rilassanti, faccio lunghissime colazioni con pane tostato e marmellata di more, provo tutti i tipi di cremine per le mani, mi faccio la ceretta ma solo a una gamba (con gli effetti devastanti che tutte potrete immaginare sulla sincronizzazione della ricrescita) perché poi mi annoio e mi appisolo sul divano con un plaid di pile, mi sveglio, mi faccio un caffè, leggo l'oroscopo di Breszny, maledico Brezsny, metto su Capossela, fisso le pareti. Poi, stanca non so neanche io di cosa, decido che ho bisogno di rilassarmi, quindi mi sdraio di nuovo sul divano e decido tutta contenta di vedere un film in streaming. Quale?
Oggi, domenica 21 Febbraio 2010, la scelta è sciaguratamente ricaduta su Baciami ancora di Muccino, e ancora mi girano per aver sprecato due ore dietro a una simile stronzata.

Ma se ne parlerà nel prossimo post. Ora vado a godermi l'ultima ora del mio privatissimo pigiama party.
[segue...]

*Mamma, papà, se mi leggete, state tranquilli. So che non volete che mi alieni nessun individuo di sesso maschile, ma fidatevi, qualche pazzo che sorvolerà su questo piccolo difettuccio prima o poi lo troviamo. Oppure potrei assordarlo con degli spilloni.

Mi pare difficile credere che tu non conosca la tua bellezza, ma se così è, lascia che sia io i tuoi occhi. Così cantava Lou Reed in "I'll be your mirror" in una delle dichiarazioni d'amore più belle che siano mai state scritte. "Sarò il tuo specchio" è una frase che dice dell'ostinatezza dell'amore, del proposito incrollabile di far capire all'altro la sua unicità e bellezza. Ed è una frase che oggi sento di dedicare a una persona in particolare:
l'otorino del reparto di Otorinolaringoiatria dell'Ospedale "Di Venere" di Bari - Carbonara che mi ha diagnosticato deviazione del setto nasale, ipertrofia dei turbinati e tonsillite cronica.
Allora ragazze mie, questo post è per descrivervi quest'uomo: altezza 1.90m, età tra i 32 e i 38, slanciato con muscoli guizzanti sotto il camicie verde, capelli ricci neri, occhio verde bottiglia con pagliuzze dorate, denti come perle (sono l'unica a guardare i denti?), labbra perfettamente disegnate (ha sorriso in due occasioni:
1. quando ho chiesto se dovevo spogliarmi completamente perché potesse osservare meglio i miei turbinati, 2. quando ho iniziato a fare "aaah" ancora prima che mi guardasse le tonsille quindi ha anche un gran senso dell'umorismo), mani gigantesche e calde che mi hanno palpato per due ore il collo, barbetta incolta e tratti vagamente mediorientali.
Come se non bastasse, l'ambulatorio è minuscolo e praticamente mi ci sono seduta in braccio perché mi visitasse, e mi ha chiesto un secondo appuntamento (tra due mesi con tutte le analisi da lui richieste, ma non vogliamo mica andare per il sottile, un appuntamento è un appuntamento, oh!)

Secondo voi il fatto che quando mi ha accompagnato alla porta mia madre e mio padre fossero appicicati con le orecchie al muro, lo scrutassero cercando di indovinare i possibili tratti somatici dei nostri bambini e avessero l'aria di chi stava lì lì per abbracciarlo e chiamarlo "figliolo", fa troppo zitella imbalsamata o posso iniziare a ricamare i fazzoletti di fiandra con su le iniziali mie e del bel dottore?

h. 1.40 Giornata pesante per tutti in via Broccaindosso.

D.: abbiamo del vino? Il mio ex sta per avere una figlia. Devo dimenticarmi del futuro.
E.: no, ma ammazziamoci di superalcolici. Il mio ex mi cerca ed è convinto che io lo ami ancora. Devo dimenticarmi del passato.
Sun.: passatemi una bottiglia di amaro. Devo dimenticarmi del presente.

Tempo mezz'ora, le riserve d'alcol sono esaurite.

Sun: ho la tachicardia, le labbra addormentate, i polpastrelli insensibili, dolore al petto, sudo freddo e voglio scappare e morirò di certo.
E.: ma no, sei presa male. Tranquilla.
D.: sei imbottita di valeriana, alcol e chissà che altro . Vatti a sdraiare che sembri Marilyn. Ho già fatto la stessa cosa decuplicando le quantità. Non morirai.
Sun (dal letto, già in posizione supina con le mani giunte sul petto): magari ho un colpo di fortuna, chi lo sa.
D. (al capezzale di Sun): Ho detto che non morirai.
E. (premurosa sull'uscio della camera): Ad ogni modo se muori, io ti piastro i capelli e ti trucco. Ti faccio figa.
Sun.: grazie tesoro. Se muoio, nell'armadio ho il tubino Balenciaga e le decolettè nere di vernice. Se riesci, recuperami un girocollo di perle. E niente occhiali, grazie.
D.: eh no! io stavo aspettando che schiattassi per rubarmi il tubino Balenciaga, così non vale!
Sun (alzandosi di scatto dal letto e spingendo D. fuori dalla stanza): col cazzo. Sto benissimo ora. Potete andare, care.

Esistono cinque parole più dolci e significative, pur nella loro palese falsità? Cinque parole più potenti, nella loro piccola poesia quotidiana, e insieme altrettanto struggenti, nel loro tentativo di negare il vero?
Stai tranquilla, io sto bene, vuol dire mille cose. Mille cose di quella semplicità un po' bambina che sa di casa, pane caldo, latte, mani strette, mamma, stelle alla finestra, di quelle cose buone che assimili nel profondo senza nemmeno accorgertene, e che non sono solo buone ma anche belle, cose tipo "ci tengo a te e sono disposto a mentire per non scombussolarti troppo" e che la dicono lunga su quanto una persona possa essersi abituata, nell'arco di una vita, a non dare troppo ascolto a certe fragilità e a mettersi da parte per pensare ad altro. Perché, per l'appunto, Stai tranquilla, io sto bene, vuol dire mille cose. Mille cose più una, per chi sa ascoltare, e cioè: non stare tranquilla, non sto bene.
Stai tranquilla, io sto bene, è una frase che mi sono sentita dire spesso in passato e che continuo a sentirmi dire ancora ora da chi cerca di mettermi un ombrello sulla testa, sapendomi refrattaria ai ripari. Ed è una frase a cui non crederò mai, nemmeno dovessero ripeterla come un mantra fino a ipnotizzarmi, ma che allo stesso tempo mi farà sempre sorridere, per quel tacito affetto che si porta dietro, per quella sottesa carezza sulla testa.
Stai tranquilla, io sto bene (Je vais bien, ne t'en fais pas), è anche il titolo di un romanzo di Olivier Adam che mi è capitato tra le mani qualche tempo fa. E anche in quel caso, la storia era la stessa: lo strazio intimo e sempre delicato di un padre che decide di imbastire una bugia nella speranza di difendere sua figlia Claire dall'aggressione della realtà - che in questo caso prende le forme brutali e incomprensibili della scomparsa di un figlio per lui, e di un fratello per lei. E per farlo, sceglie di compiere il più classico degli atti d'amore: mentire per proteggere. Affrontare di tanto in tanto spostamenti su e giù per la Francia col solo scopo di appiccicare questa manciata di parole su cartoline ogni volta diverse, così da convincere Claire a star tranquilla, ché tanto lui, suo fratello, sta bene, sta solo affrontando un lungo viaggio.
Che poi è forse quello che noi tutti ci auguriamo, quando perdiamo qualcuno. Che continuino a percorrere un sentiero. Che, anche se a noi invisibile, quell'intarsio minimale di passi possa avere una sua grammatica, un suo senso. E che stiano bene dove sono. Ma bene davvero, non solo per tranquillizzarci, ché ci diano loro la forza di occuparci di chi resta.

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