Yes, darling. Life sucks

Learning how to cope since 1982

Quello del traduttore, credetemi, è un lavoro duro. Un lavoro in cui si guadagna male, si lavora spesso di notte per non sforare una consegna, che ti impone di imparare a gestire le urgenze e accettare un frustrante compromesso tra un ideale teorico di perfezione e ciò che effettivamente si ha il tempo di produrre, e non di meno di continuare sempre a tendere verso quell'ideale. Un lavoro che la sera ti lascia sfibrato e incapace di proferire una frase di senso compiuto nella tua lingua madre, che ti concede, come unica contropartita, una sfida contro te stesso negandoti qualsiasi riconoscimento esterno.
Perché quello del traduttore è un lavoro solitario, adatto a chi non ha bizze da prima donna e anzi rifugge le luci della ribalta.
Sei tu e il libro, e nessuno con cui confrontarsi.
Ora, so che per qualche tipo antisociale, l'idea di fare un mestiere che implichi il non avere alcun contatto umano possa sembrare attraente, ciò non toglie che il lavoro del freelance abbatta totalmente la barriera tra il lavoro e il non-lavoro, trasformandoti l'esistenza in un continuum solitario di traduzioni miste a momenti di svago (i miei implicano andare a cercare su Google cose del tipo "ernia lombare", ché ci tengo proprio a sembrare una specie di Quasimodo che passa la vita dietro uno schermo). Capitano giorni in cui anche il minimo di decenza imposto dal dover uscire e andare in ufficio (quelle attività tipo togliersi il pigiama, pettinarsi, lavarsi il viso), per un freelance, sembri un di più insostenibile, e quindi si passi direttamente dal lettone alla scrivania e da lì di nuovo col portatile sul divano e poi sul letto tra migliaia di fogli e briciole sparse a infilarsi tra i tasti.
E insomma, in mezzo a tutta questa precarietà, in mezzo a tutte queste sfide interiori, gli unici referenti che riesci a trovare hanno l'impalpabilità del modello irraggiungibile, quelli a cui guardi quando ti assale il dubbio del perché tu abbia scelto di fare questo, della tua vita.
E quindi pensi all'Adriana Motti e ai dubbi su come tradurre The catcher in the rye, a come non tradire le intenzioni di chi con grande trepidazione affida le sue parole a te, alla Pivano di Addio alle armi di Hemingway e compagnia bella. Respiri, e ti senti davvero rivestito di un ruolo sacrale, quello di ponte tra l'arte e il mondo. Ecco, ora sei ispirato, puoi tradurre al meglio delle tue potenzialità. E infatti traduci.

Lui: sei pronta, bella? Si fa sesso animale.
Lei: no, non possiamo! Testa di Maiale potrebbe arrivare da un momento all'altro!
Lui: c'è un solo maiale in questa stanza. Coraggio bimba, il paparino ha qui una bella salsiccia per te.

Ma secondo voi, ripensando all'estetica crociana e alla teoria delle traduzioni "brutta ma fedeli" e "belle ma infedeli", la mia dove si pone?

Io l'arte contemporanea non la capisco e non la amo. Non la amo perché non la capisco e non mi ci applico a capirla perché non la amo.
Ho, nei confronti dell'arte contemporanea, quell'atteggiamento di cazzonaggine acuta che non si capisce bene se sia una forma estrema di snobismo e rigetto dell'arte in pieno stile marinettiano, un doveroso atto di umiltà, una sorta di "alzo le mani" davanti all'ignoto o semplicemente cazzonaggine acuta (propendo per quest'ultima).
Il fatto è che io, l'arte contemporanea, credo di averla studiata abbastanza da intuirne la complessità dei temi e l'enorme varietà delle declinazioni ma non da comprenderne la complessità dei temi e l'enorme varietà delle declinazioni. Non abbastanza perché il punto interrogativo sul mio viso, davanti a certe opere, si distenda nel momento della piena comprensione anziché trasformarsi in un risolino di scherno o una battuta stupida. Non abbastanza perché io mi permetta di parlarne senza sentirmi, per questo, ridicola.
Insomma, diciamolo. Sono una capra. Ma, più capra di me, e meno consapevole di esserlo, doveva essere gran parte della fauna che popolava ieri la mostra dedicata a Edward Hopper al Palazzo Reale di Milano. La crème de la crème della borghesia milanese, infatti, era tutta riunita lì dopo pranzo e doveva proprio sentirsi in dovere di validare (casomai qualcuno avesse avuto dubbi) la teoria dylaniana dell' inside the museums, infinity goes up on trial prodigandosi in roboanti interpretazioni pseudointellettuali gradevoli quanto un cazzotto in un occhio, il tutto mentre il Perfido Manager e io, regrediti agli anni beati dell'infanzia comune, ci esibivamo nel teatrino intitolato "Scemo&più scema" con osservazioni del tipo belle tette però la moglie di Hopper (lui), cazzo che voglia di fumare e comprarmi un paio di scarpe nuove (io) ehi però questo so disegnarlo anch'io! (falso, caro il mio Perfido Manager, tu per definizione non sei in grado nemmeno di disegnare un omino stilizzato), o addirittura non male questo trivani, peccato sia un po' carente quanto a infissi, chissà quanto veniva al mq e ma che era, un immobiliarista?(vista la ricorrenza, nei quadri di Hopper, delle celeberrime casette imbiancate).
Salvo poi, dopo ore di demenzialità immotivata, commuoverci davanti a questo newyorkese Degas-incontra-De Chirico, davanti alla luce tagliente a svelare interni borghesi, alla triste tragicità après l'amour, alla scelta programmatica di un realismo rarefatto per narrare lo strazio tutto in tono minore delle scene di silenzio e incomunicabilità coniugale.
E correre, con la testa, ad altri interni borghesi e altre scelte narrative non meno impietose. A silenzi, assenze e omissioni altrettanto significative, quelle carveriane, impossibili da non accostare all'universo di Hopper. Dove solitudine domestica e silenzio regnano sovrani, e il sole lumeggia spietato le miserie del quotidiano.

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