Yes, darling. Life sucks

Learning how to cope since 1982

Ci sono volte che la notte mi sveglio e mi chiedo dove sono, se sono a casa, o se ci sarò mai.
Oggi si è compiuto l’ennesimo trasloco. Un trasloco da una casa ostile che non sarebbe mai potuta essere la mia a una casa amica che non è e - non solo per un fatto di possibilità economiche - non sarà mai mia, e che è stata a sua volta preceduta da una casa che sentivo appartenermi ancora meno, pur essendo il posto in cui sono nata. Pur appartenendo quelle mura alla mia famiglia da tanti anni da averne assorbito nevrosi, buoni propositi, dialoghi, processi alle intenzioni. Pur avendo giocato a nascondino in quelle stanze ed essendomi svegliata lì per più di vent’ anni con l’odore del caffè.
Nemmeno mia è la casa in cui da qualche mese mi sveglio di tanto in tanto, nei weekend, e vengo svegliata dal ciabattare ostinato della signora del piano di sopra o – quando mi va bene – da una carezza sulla testa, che effettivamente riscatta tutte le ore di viaggio fatte per arrivare fin lì.
Non mi appartiene la città in cui vivo che non so bene di chi sia ma di certo non è mia, anche se devo ammettere che oggi, schiacciata a mo’ di sardina nel calduccio del 25, fuori pioggia battente e gelo in anticipo, ho sentito distintamente quanto si stia bene nella stanza degli ospiti se si è desiderati, e alla fine questa città mi ha accolta, me e altre migliaia prima di me, sempre a braccia aperte. Ho sentito quanto questa natura di ospite si sia fatta largo in me fino a definirmi, in un modo o nell’altro, e la cosa mi ha spinto a sfidare l’acquazzone per trovare la connessione più vicina e scrivere questo blog.
Sono ospite pure nelle amicizie, a cui mi avvicino in punta di piedi per evitare scomode ingerenze e a cui quasi mai sento di appartenere totalmente, così come persino nell’ideologia, a cui mai riuscirò ad aderire a pieno, cosicché mai mi si potrà dire di me “fu organica al Partito”.
Non sento come totalmente mio nemmeno il lavoro: sono la lavoratrice a cottimo, quella che fa il lavoro sporco e di solito si prende le briciole e solo se capita, en passant, qualche piccola soddisfazione, tanto che pensavo di scrivere un libro e intitolarlo Le mie provvigioni, solo che i libri dovrei farli pubblicare, non pubblicarli, per guadagnare. Logica che guarda caso non mi appartiene.
E di tutto questo, di tutto questo senso di non appartenenza, di esilio mentale, di spaesamento misto a meraviglia, precarietà che ormai è per me bandiera sbrindellata al vento, io ho fatto cifra caratteristica, terreno che frana sotto i piedi e manifesto personale, croce e delizia.

Non esiste altra casa se non quella che riconosco quando di notte tiro un calcio e ti trovo lì.

13 comments:

Anonymous said...

Potrei scrivere il mio nome sotto questo post per quanto è aderente a ciò che sento anche io. Precarietà e senso di spaesamento, ma turbato da ansie e dolori strani, intercostali, come se mancasse qualcosa, come se ci fosse un dolore sotto, sotto il cinismo e le maschere che ci si costruisce.
O forse perchè non c'è nessuno che sta lì, dietro una porta.

Sempreinspiaggia said...

Cosa darei per sentire un calcio come quello.

takajiro said...

ti auguro di scalciare di continuo!!

Anonymous said...

... ottimo post sull'amore ...

Anonymous said...

scalza?

giudaballerino said...

Solidarietà da parte di un fuori sede e precario decennale, che della non appartenenza ne ha fatto una filosofia di vita. Diceva Battiato: "Come uno straniero/ non sento legami/ di sentimento..." A volte sarebbe proprio belle se fosse così...

SunOfYork said...

°divara: credo un po' tutta la generazione nata dalla metà degli anni '70 alla metà degli anni '80 sottoscriverebbe. In qualche modo, prima o poi.
°sempreinspiaggia: sì, è sempre bello svegliarsi coi lividi sugli stinchi :)
°spiderfedix: sarà difficile che io smetta
°zurli: ma nooo? ma cosa devono sentire le mie orecchie? non era mica un post su quello, no no :)
°iggy: no, con gli anfibi chiodati
°giudaballerino: per fortuna in tutta questa precarietà, almeno qualcosa di certo.no, meglio non dirlo.

TheLegs said...

Non hai pensato di trasferirti in questo blog? Fa pure un po' Matrix. La chiamavano Trinità, va'.

emme said...

sì, dev'essere una cosa generazionale questo senso di non appartenenza. chi più chi meno, più o meno a ragione, ci sentiamo in bilico, fuori posto, irrequieti. e magari non è un caso che si finisca per dirlo su un blog, ci si costruisce almeno una casa immateriale.

comunque gran bella cosa avere chi ti ospiti..

Anonymous said...

ma smettila, molla la calza e esci

Unknown said...

Dopo aver girato un bel po' per studio e per lavoro, ho scelto di tornare nella città dove sono cresciuta per ereditare il lavoro di mio padre. Ho capito a mie spese che un lavoro ben remunerato e sicuro (e che mi piace) non può ripagare la scelta di essermi lasciata alle spalle una vita piena anche se "precaria".
Mi ritrovo a quasi 30 anni a fare i conti con un cambiamento di vita che mi ha fortemente destabilizzata. Cercavo la pace in una città tranquilla rispetto al caos di Roma, cercavo più spazi da dedicare a me stessa piuttosto che perdere tempo regalandolo tutto al lavoro e agli spostamenti, cercavo rifugio nella mia famiglia perchè nella Capitale non avevo legami se non quelli di carissimi amici che prima o poi sarebbero potuti andar via.
Ora che ho scoperto che la pace (o l'indolenza?!?) di questa città mi fa deprimere, che il tempo recuperato non so con chi spenderlo, che a Roma ho lasciato e (forse) perso la persona con la quale avrei voluto passare la mia vita, mi chiedo con veemenza: Cri, hai cambiato molte volte il corso della tua vita, perchè non farlo di nuovo?
Queste poche righe sono dedicate a chi dell'instabilità del lavoro e della vita deve fare la piattaforma per la propria felicità.
Prometto che un eventuale prox commento sarà meno melanconico!!

kabalino said...

E' difficile appartenere a noi stessi; agli altri e alle città è quasi impossibile. Però fintanto che si riesce a scalciare...

Anonymous said...

auch


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