Yes, darling. Life sucks

Learning how to cope since 1982

Care amiche e amici, come fate voi a capire se una persona vi piace davvero? Scrivete su un pezzo di carta il vostro nome vicino al suo cognome e vedete se l'accoppiata suona bene? Cercate di capire a che livello di trituramento degli attributi può arrivare la vostra donna o siete di quelli più estemporanei, che affidano una scelta così importante alle farfalle nello stomaco?
Ebbene, io ho un metodo infallibile: penso ai figli.
Vale a dire, per capire se con quella persona ci può essere qualcosa di serio, devo:
1. riuscire a visualizzare l'immagine di me, lui, e la nostra famiglia -non meno di due pargoli- senza avere conati di vomito (questo dovrebbe rassicurarmi sul fatto che, almeno nel momento in cui formulo il pensiero, io reputi quella persona degna di trascorrerci l'esistenza);
2. riuscire a visualizzare i miei figli e trovarli di una bellezza disarmante (essendo figli miei) e di una intelligenza acuta (questo grazie all'apporto di lui), perché bisogna sempre migliorare la specie.

Solo superati questi test, per me ha senso continuare la relazione, altrimenti è una perdita di tempo. Ora, non è che io viva una storia solo in prospettiva di quello, nè per me l'uomo è un mero mezzo per riprodurmi sennò ne sceglierei uno a caso (non che sia facile, comunque) e la finirei lì: per quanto vi ami tutti, omìni miei, e vi trovi tutti stupendi, ci vuole quello giusto nel momento giusto, e se mai ci sarà, è bene che sappia da subito che, anche se di sfondo, il pensiero dei figli c'è stato, c'è e ci sarà, e si sostanzia non solo della condizione di mamma inside, ma del fatto che uno dei rapporti più appaganti che io abbia avuto in questi ultimi cinque anni, è quello con una folle cinquenne che porta il mio stesso nome e a cui oggi ho cercato di insegnare qualche frasetta in inglese col solo risultato, peraltro esilarante, di vederla trasformarsi sotto i miei occhi in una specie di Bruce Lee ("I want more" è diventato "I wanton" pron.aiuontòn, "How are you" - auaiù - con tanto di gesto da esperta karateka , dopodiché, ormai confusa anche sulla sua lingua madre, ha iniziato a chiamare il gatto "catto" e a piroettare su se stessa urlando "chan chan" anziché "ciao ciao").

Bene, passato il momento di tenerezza per Sunofyork jr (che pure, insieme al fratello maggiore di cui già parlai tempo fa, hanno dato un senso nuovo alla vita di questa famiglia), posso fare il mio pronunciaménto.

io, Sunofyork sr, nel pieno delle mie facoltà mentali (quelle che restano), in quanto madre in pectore, mi impegno solennemente a non: credere di meritarmi il nobel solo per aver partorito, non ritenere mio figlio/mia figlia di una intelligenza strabiliante rispetto agli altri bambini solo perché sa opporre il pollice all'indice, non rincoglionire la prole con cazzate tipo i teletubbies, non rincoglionirmi io stessa con cazzate tipo i teletubbies, non finire tutti gli omogeneizzati del pupo e i suoi biscotti plasmon, limitare al giusto le paroline puccipucci baubau, non farmi prendere dalla smania di coordinare gli abiti miei, del pargolo e del padre del pargolo, non confondergli le idee cercando di insegnargli la lingua inglese troppo presto, non viziarlo, non rivestire la casa di gommapiuma presa dall'ansia per gli spigoli vivi, non dimenticarmi di fare la ceretta solo perché ormai ho ottenuto quello che volevo, non accoppare la fidanzata/il fidanzato quando, quindicenne, la/lo porterà a casa.
Mi impegno invece a: raccontare storie finché non si addormenta, avere pazienza e abnegazione, dargli un senso della famiglia, ripararlo dai pericoli senza soffocarlo, portarlo a Rovaniemi alla città di Babbo Natale, fargli credere all'incanto delle fiabe più a lungo possibile.

No, in caso ve lo chiediate, non sono incinta e sì, mi rendo conto che con questo post erotico quanto una testata nei sacri gingilli, mi sto alienando ogni chance di trovare un uomo e di conseguenza avere dei figli, però quest'è, male che vada mi trasferisco in Spagna.

Bene bene, bambini miei, vi avviso che la mamma da lunedì prossimo sarà nervosetta, in quanto si inaugura un periodo di dieta che terminerà non prima del 24 dicembre 2009, quando, in occasione delle feste natalizie, mammina vostra vanificherà quattro mesi di sforzi si concederà una piccola tregua a base di pandoro e cotechino (insieme, inzuppati nel lardo di colonnata e spalmati di nutella), per poi ricominciare con il regime ipocalorico dal 6 gennaio 2010. Ora, tesorini adorati, direte voi: ma sei pazza? l'estate è appena finita, non potevi pensarci prima? Ebbene diletti pargoli, siete così ingenuotti che dubito possiate essere figli miei - ecco cosa risponderei io alla vostra tenera obiezione: non è che io sia in ritardo con la dieta, anzi, sono in anticipo. La dieta che comincerò lunedì è intesa per la prova bikini dell'estate 2o1o, ché siamo previdenti qui, ed è frutto di un complicatissimo calcolo

-5 Kg fino a dicembre, +3 Kg durante le vacanze di natale, +2 Kg nel post epifania grazie alle tremila calze della Befana regalatemi da mia nonna sosia-di-Gianni-Morandi che durano fino a metà febbraio, -3 Kg tra tonsillite marzolina, asma allergica e stress post traumatico dovuto alla lunga permanenza in famiglia, +3 Kg, dovuti all'ottimistico vabè tanto ho perso tre chili, non manderò mica tutto in vacca solo per un altro spritz!

che, come potrete facilmente constatare, mi porterà a giugno prossimo, con mio sommo disappunto, ad essere esattamente indentica ad ora solo molto molto più esaurita di così, ma almeno mi eviterà di mettere su peso. E quindi. La dieta che seguirò si basa su un moderatissimo decalogo:

1. i carboidrati e la frittura sono il Male;
2. carne, pesce e verdure sono il Bene assoluto e fanno sentire subito più leggeri te e il tuo portafogli;
3. bere due litri d'acqua (ricordarsi: acqua, non vodka liscia) al giorno è indispensabile;
4. la dieta è dolore, diffidare da chi promette soluzioni miracolose e immediate;
5. non dimenticare l'attività fisica. Spostare il cartone della pizza dalle ginocchia, alzarsi dal divano e andare a prendersi una birra in frigo non è uno sport (sennò sarei campionessa olimpica), così come andare a correre non significa andare ai Giardini Margherita, seguire per 100 metri il figo di turno che si allena, poi stravaccarsi su una panchina in preda a un enfisema e fumarsi due Camel di seguito con l'amichetta;
6. quelli che dicono che bisogna mangiare poco di tutto vanno abbattuti a suon di carote crude in testa perché non sanno cosa vuol dire avere un metabolismo letargico insieme a quelli (amico K. parlo con te) che si disperano perché non riescono ad ingrassare;
7. anche se su Cosmopolitan dicono che col sesso si bruciano un bel po' di calorie, e anche se hai un uomo particolarmente resistente, non c'è notte di passione che tenga se ceni ogni sera a base di salama da sugo e gnocco fritto. E poi, se c'hai uno straccio d'uomo, ed è pure resistente, ma che te frega di metterti a dieta, ormai l'allocco l'hai impalmato;
8. usa tutte le energie mentali di cui disponi per convincerti che la crema di riso muller (per chi sa di che parlo: ma quanti uomini ci vogliono per farne un vasetto?) è un sublime dessert;
9. in caso non ci sia alcuna perdita di peso, vai pure nei camerini di H&M ed illuditi del contrario;
10. la cioccolata non fa ingrassare un paio di palle.

E con questo è tutto. Se qualcuno con poco fiato e molta forza d'animo da settembre si dovesse trovare a Bologna e avesse voglia di andare a correre tre volte alla settimana, non ha che da dirmelo. Una Camel non si nega a nessuno.

Lo sapete, non faccio mai recensioni letterarie. Se un libro non lo amo, perché parlarne, se invece lo amo, chi sono io per parlarne.
Oggi però è diverso. Oggi sono qui a scrivervi non tanto di un libro (Albinati&Timi, Tutt'al più muoio, Fandango libri), che pure ho amato al punto di scegliere di rimanere sul bagnasciuga a ridere da sola, nascondere le lacrime dietro enormi occhiali da sole e beccarmi un'ustione alla clavicola piuttosto che staccare gli occhi dalla pagina e cercarmi un posto all'ombra, quanto a raccontarvi del mio innamoramento repentino, viscerale e totalizzante per Filippo Timi, attore teatrale e cinematografico di raro talento e intensità, scrittore sensibile, o forse molto più semplicemente uomo dotato di un'anima bella e dirompente, in grado di saltar fuori dalle righe stampate come dalla macchina da presa e prendere a cazzotti nei denti te e la tua spocchia intellettualoide per tutte le volte che hai blaterato che il cinema, il teatro e la letteratura italiana sono in totale decandenza, che siamo una realtà culturale massificata e di provincia (lo siamo, ma con le dovute eccezioni) e che niente di buono può venir fuori da questa landa piagata da puritanesimo di facciata e scarsa umanità.
Avete presente quando si ha qualcosa sotto gli occhi ma non la si vede per nulla al mondo? Quando si condivide lo stesso identico spazio -fisico o mentale- con qualcuno ma non ci si riesce a trovare e a prendersi le mani? Bene, per me con Filippo Timi è avvenuto così. Il solito, adorato K. mi ha regalato più di un anno fa questa autobiografia romanzata per il mio compleanno. Non l'ho nemmeno aperta, inconsciamente tenendola da parte e coccolandola in attesa di un momento più adatto. Poi, l'opinione entusiasta di un'amica, i commenti della rete, l'amico Cremino che mi illumina il collegamento -Timi, per l'appunto- tra il romanzo e due gran bei film italiani, Come dio comanda di Salvatores e Vincere di Marco Bellocchio, l'arrivo di un periodo un po' così, perché è mia ferma convinzione che è solo nei periodi un po' così, quando carne e nervi sono più esposti agli agenti atmosferici, che si possa apprezzare a pieno la poesia lieve e l'ironia dolente di una narrazione di questo tipo. E insomma, finalmente mi decido ad aprire il libro, lo divoro nei pochi giorni salentini, rido con Filo delle piccole sciagure della provincia e mi commuovo con lui per quella umanità irreperibile altrove, per gli stessi amori giovanili portati avanti per tutta la vita. E mi decido a parlarne con voi, in un qualcosa che non vuole essere per nulla al mondo una recensione ma solo un suggerimento per chi come me si fosse perso questa perla (di libro e di uomo), e una condivisione di entusiasmo per chi invece già lo conoscesse, e per farlo, fa appello a tutto il buono della rete: curiosità, efficacia del passaparola, comunanza di interessi, vicinanza virtuale e non, capacità di contagio, puro e semplice buon senso.
Poi, il fatto che invierò stasera stessa il link di questo mio post a Filippo Timi e gli farò palese la mia intenzione di sposarlo e fare dei figli con lui, è secondario. Però capitemi (e tu, Filippo, capiscimi): il ragazzo pare sensibile, recita da dio e scrive altrettanto bene - per una che vuole fare l'editore, ciò basta e avanza a far comparire il simbolo $ al posto delle pupille in stile Paperon de Paperoni - è bono come il pane e c'ha pure la barba, il che titilla amabilmente il mio complesso di Elettra.
Insomma, Filippo, siamo una coppia perfetta.
Ci pensi tu a mandare le partecipazioni?

La colazione bolognese è un rito che si ripete ogni mattina uguale a se stesso: un tè bollente sorseggiato con calma, in silenzio, una fetta biscottata, e nient'altro. Non ci sono eccezioni: la valenza consolatoria della tazza di twinings breakfast fumante, nelle mattine di gennaio quando uscire dal piumone tiepido è uno strazio insopportabile, non ha rivali, ed è un piacere che solo chi beve tè ogni santo giorno da troppi anni può comprendere a pieno.
Badate bene, nell'arco della giornata berrò altri tre o quattro tè - a proposito, se qualcuno si trovasse a volersi sbarazzare di un bollitore mod. Hot Bertaa disegnato per Alessi da Philip Starck e non sapesse a chi regalarlo, sappiate che è uno dei miei desideri per il 2009 - ma nessuno è uguale al tè che bevo a colazione: quei cinque minuti di sospensione del giudizio, in cui non si indossa ancora la maschera sociale e i pensieri continuano a concatenarsi secondo le logiche del sogno, logiche altre e più fumose di quelle che scandiscono le restanti ore, hanno il sapore inconfondibile del piccolo lusso quotidiano.
Un lusso che apprezzavo sin da ragazzina, quando, in campeggio con i miei genitori, i loro migliori amici e i loro due figli, (uno dei quali tutti immaginavano sarebbe diventato il mio fidanzato e poi mio marito) sgattaiolavo dal bungalow alle sei di mattina in contemporanea con questo altissimo adolescente per cui avevo una cotta - ricambiata, ma eravamo troppo impauriti anche solo per tenerci la mano - rubavamo le Macine dalla credenza, e andavamo a sgranocchiarle in silenzio su una duna di fronte al mare, io, pensando al perché quel bellissimo inconcludente non si decidesse a baciarmi, lui, con quello sguardo un po' così, probabilmente non pensava a niente, aveva semplicemente il vuoto pneumatico nel cervello. Non successe niente, ma a settembre, tornati a scuola, il peso di ciò che sarebbe potuto essere, l'imbarazzo di quei momenti di intimità condivisi, spinsero il ragazzo a smetterla di salutarmi e a far finta di non conoscermi.

Ma ora è agosto, e io sono a Bari dai miei. Il che vuol dire fronteggiare colazioni minimo in quattro, massimo in dieci, discussioni politiche mattutine, bambini urlanti che esigono pane e marmellata e spargono cereali per terra al mio passaggio come fossero petali di rosa, e una angosciante assenza di tè twinings. Vuol dire svegliarsi la mattina prima di tutti, sgattaiolare in cucina, aprire gli scuri per far entrare l'aria di mare guardando il pepe selvatico che ormai ha raggiunto il balcone del primo piano e ricordarsi di quando era poco più di un cespuglio, poi avvertire un'ombra ghignante alle spalle, voltarsi, imbattersi in mio padre Dennis Hopper in modalità rompicoglioni.
Dovete sapere che mio padre ha un talento tutto particolare nel risultare sempre inopportuno. Questa sua dote si esplica in particolare di mattina in maniera polimorfica, ma con il solo obiettivo di irritarmi, causandomi un antiestetico tic al sopracciglio. La top five dell'odio mattutino in particolare prevede che lui:
1) storpi i nomi di amici e conoscenti, per cui Valentina diventa Tatiana, Teodora diventa Dorotea, Pino - Gino e così via;
2) canticchi la canzone L'estate sta finendo (lo faceva anche al liceo, e io piangevo alla sola idea di tornare a farmi venire la scoliosi sul Rocci);
3) esprima opinioni non richieste sulla mia situazione sentimentale;
4) mi chieda di fargli una fetta biscottata con la marmellata;
5) si rifaccia da sè la fetta biscottata perché la mia non è precisa e la marmellata non è stesa in maniera uniforme e comunque come le fai lui le cose, nessuno.

Ho il sospetto che per mio padre il piccolo lusso quotidiano di cui parlavo prima consista esattamente in questo: infliggere una tortura psicologica alla sua primogenita.
Comunque domani parto per qualche giorno: una tenda, il mare, due tre libri, gli alberi, poche persone care che sanno apprezzare la bellezza delle colazioni in silenzio.
A distanza di quindici anni da quel campeggio coi miei genitori, tornerò a bagnarmi nelle stesse acque, a calcare le stesse dune, ad arrovellarmi su un altro bellissimo uomo indeciso. Ad occhio e croce sarà meglio non fare previsioni sentimentali basate sulle vicende del passato.
Tra l'altro ora il prezzo delle Macine si è praticamente triplicato e in più seguo una dieta priva di carboidrati.
Che meraviglia il tempo che scorre.

Buone vacanze a tutti miei adorati, vi voglio bene!

[...]Mi fece accomodare sul letto e mi portò delle fette di cocomero che mangiammo assetati. Io sputai i semi, lei no. Poi facemmo l'amore. (P.A. Jarvis)

Sono passati cinque mesi ma ricordo bene che stavo traducendo questa frase, tutta intenta a non tradire le intenzioni di chi l'aveva scritta e me l'aveva consegnata con enorme fiducia. Guardai l'ora sul pc: le 16.15. Erano i primi di marzo e fuori faceva ancora freddo. Mi fermai un attimo a riflettere su quei giorni strani e pieni di scossoni. Pensai che era una fregatura che proprio in quel momento non ci fosse D., la mia amata coinquilina, lì a Bologna con me e che avremmo preso il tè delle cinque insieme, ridendo di come avessi scombussolato la mia vita nel giro di una settimana. L'altra coinquilina, l'Afflitta, aveva passato la nottata precedente a singhiozzare davanti al pc ed era anche lei fuori di casa, ma comunque per definizione non sarebbe stata di grande aiuto. Poi una voce, debole, sempre più debole, che chiamava il mio nome mi scosse dai miei pensieri. Dentro di me sapevo che era successo qualcosa ma il cervello si rifiutava di prestare ascolto a quella voce dal corridoio. Mi ritrovai in piedi in cucina, immobile, la voce non c'era più; fui tentata di ignorare quell'incubo e ritornare alla mia traduzione, di non andare a vedere, occhio non vede cuore non duole, perché mai andare ad aprire quella porta se il film si chiama "Non aprite quella porta" e cose così. Però non potevo. Mi affaccio al corridoio e vedo esattamente quello che non avrei mai voluto vedere ma sapevo che avrei visto: l'Afflitta riversa a terra tra la porta del bagno e il corridoio, braccia e gambe piegate come non dovrebbero mai essere piegate, in un modo che mi fa pensare a una svastica. Corro per il corridoio, ho il cuore che mi è saltato in gola e lo sento distintamente pulsarmi nelle orecchie. Mi avvicino, le tasto il polso, niente, non c'è, cazzo F. che cos'hai fatto, cerco di girarla, di metterla su un fianco, non so perché ma so che è così che bisogna fare, e girandola la guardo in faccia. Il rosario le penzola dal collo come al solito, le palpebre semiaperte rivelano gli occhi rovesciati all'indietro, il colorito grigio e innaturale che la siccità conferisce alle terre delle mie parti, le labbra spaccate e bluastre. E' morta - mi dico - andata. Non respira, e manco io sto respirando, ho la gola stretta in una morsa, passa a stento un filo d'aria. Cazzo, F. perché mi hai fatto questo, perché proprio qui e non da qualche altra parte. E' assurdo ed egoistico, ma l'aria non mi arriva al cervello e sento che sto solo posticipando un attacco di panico di quelli epocali. La prima persona a cui penso è la Knox, penso a Vespa che sguazza nel tracciare l'identikit del giovane killer, penso a un revival delle teorie di Lombroso: Amanda Knox, Raffaele Sollecito, Alberto Stasi, Sunofyork. Tutti giovani, tutti biondicci e dall'aspetto angelico. Poi la razionalità nella follia: D. Mi avrebbe tirato fuori lei dai guai. Lei e tutti quelli che conoscono me e F. possono testimoniare che era depressa, che erano mesi che dava segni di squilibrio e forte depressione, che avevamo fatto qualsiasi cosa per aiutarla. Ok, forse me la cavo. Mentre faccio questi pensieri, le sono inginocchiata accanto e mi è venuta una forza fisica prima sconosciuta: giro ancora F. come fosse una bambola di pezza, le alzo le gambe, e a un certo punto lei tossisce. Cerco di rimetterla su un fianco in caso dovesse rimettere, inizia ad avere delle convulsioni e vomita, F. che cosa cazzo hai preso, ti prego dimmelo, poi riperde conoscenza. Ma è viva. E' viva e io devo fare qualcosa, vado in cucina, ho solo del Dietor, porca miseria, mi ricordo che D. aveva conservato in caso di cali di pressione due bustine di zucchero di canna prese da un bar in cui avevamo fatto colazione la settimana prima. Nel frattempo sto avendo un infarto e contemporaneamente annego in un liquido vischioso, vorrei solo scappare, poco ma sicuro, ma trovo le bustine, ci faccio due tazze di acqua e zucchero enormi, una per me e e una per lei, una la bevo subito rovesciandomela praticamente tutta addosso per quanto mi tremano le mani, mi affretto per il corridoio ripetendo ossessivamente tra me e a me qualcuno mi aiuti qualcuno mi aiuti qualcuno mi aiuti, per tirarmi su nel frattempo mi bevo anche l'acqua e zucchero per F. che ancora non riesco a far riprendere, corro giù scalza per le scale di casa, citofono al piano di sotto e di tutta risposta ho un "chiama il 118", torno su, effettivamente chiamo il 118. F. ora ha aperto gli occhi ma non riesce a parlare, sembra lontana, oltre una lastra di vetro. Le dico stai tranquilla, arriva l'autoambulanza, non ti muovere di qui io mi allontano un attimo. Vado in camera, non riesco più a reprimere l'attacco di panico, non riesco a star ferma, so che devo fare: chiamare mia madre. "Mamma parlami", non sono in grado di spiegarle cosa sta succedendo perché qualcosa mi strozza, non riesco nemmeno a piangere. Mia madre capisce, inizia a raccontarmi la sua giornata mentre io mi soffermo solo sulla respirazione. Posso guardarmi riflessa nello specchio della parete di fronte, sdraiata sul letto con le gambe alzate sul muro, le braccia spalancate, i capillari scoppiati per lo sbalzo di pressione che conferiscono alle palpebre un colore violaceo.
Ed è in questo stato che mi trova il ragazzino lentigginoso del 118 quando entra in casa, trovando la porta d'ingresso aperta. E' alto un metro e una lenticchia e peserà attorno ai 50 kg. Mi squadra atterrito. Nel palazzo non c'è l'ascensore.
No, tranquillo, non è me che devi portare in braccio giù per le scale.
(Stava per avere un attacco di panico pure lui, secondo me)

Solo molte ore dopo, con F. ormai in reparto e sotto controllo, in un asettico bagno d'ospedale piastrellato di bianco, riesco ad abbandonarmi a un pianto disperato.
F. ora sta bene, o almeno meglio. Abbiamo quasi superato l'episodio. Le ho imposto di usare un nome in codice se deve chiamarmi per motivi non gravi in modo da risparmiarmi infarti inutili. E, ovviamente, ho imparato che devo sempre avere lo zucchero in casa.

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